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Rassegna stampa di testate nazionali ed internazionali a cura di Paolo Gozzi - 27/10/24

 
Nel novembre 2023 l’European Council on Foreign Relations ha eseguito un’indagine demoscopica nei paesi dell’UE per conoscere il pensiero dei cittadini in merito al processo di allargamento. I risultati (disponibili sul sito dell’istituto: leggi) hanno evidenziato, tra l’altro, che una maggioranza degli intervistati è piuttosto “fredda” nei confronti dell’adesione dei paesi dei Balcani occidentali.
Parallelamente, gli abitanti di questi paesi, pur mantenendosi europeisti, denotano un certo scetticismo circa la “serietà” dell’Unione quando promette di accoglierli (come emerso da un’altra indagine condotta dall’International Republican Institute e scaricabile qui: leggi).
Più drastico è stato recentemente il vice-Primo ministro serbo Aleksandar Vulin, che ha dichiarato in un’intervista alla Berliner Zeitung di essere “diventato euroscettico [perché] le figure di spicco dell’UE non sono sincere. Non hanno una posizione genuina riguardo l’adesione” (leggi in italiano sul sito Serbian Monitor).
L’intervista è interessante anche perché da un lato schiera inequivocabilmente la dirigenza serba tra le destre sovraniste (“l’Unione Europea non dovrebbe essere un insieme di territori, ma una comunità di nazioni libere”) e dall’altro ribadisce la volontà di Belgrado di stringere alleanze senza condizionamenti (“Non c’è dubbio che i BRICS siano diventati una vera alternativa all’Unione Europea” ha aggiunto Vulin, anche se il Presidente Vučić ha declinato l’invito a partecipare al vertice di Kazan, pur con molti distinguo come sottolineato dall’Agenzia Novaleggi). Prende lo spunto dalle parole di Vulin un’interessante (e pessimistica) analisi dell’Istituto Analisi Relazioni Internazionalileggi.
 
Per quelle oscillazioni dei sentimenti delle masse di cui solo gli storici riescono a dare una spiegazione compiuta (e sempre solo a posteriori), nel nostro continente stiamo assistendo ormai da molti anni al successo crescente delle politiche più nazionaliste e conservatrici. (Il concetto è magistralmente illustrato nella recensione del libro After Nativism di Ash Amin, apparsa sul sito del Mulinoleggi.).
Il fenomeno appare generalizzato e tale da coinvolgere, seppure con gradazioni diverse, praticamente tutti i paesi, all’interno e all’esterno dell’UE. (Una bella analisi è stata proposta dal Centro per la Riforma dello Statoleggi.)
Eppure, parafrasando il celebre incipit di Anna Karenina (riprodotto anche su Wordpressleggi), si può dire che “ogni forza di destra è di destra a modo suo”, come illustrato da Marc Lazar in un articolo sul sito dell’Institut Montaigneleggi.
Supporta questa tesi anche Beda Romano sul sito dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), ragionando su geopolitica e storia della Germania e cercando di risponder alla domanda “Come spiegare l’enigma tedesco?” nel momento in cui “il 40% della popolazione nella ex DDR vota per i partiti più estremisti” (leggi).
 
Le audizioni dinanzi alle commissioni del Parlamento europeo dei Commissari scelti dagli Stati membri e designati da Ursula von der Leyen sono ormai prossime (il calendario è pubblicato sul sito del PEleggi).
Gli interessati si stanno verosimilmente preparando a rispondere alle domande dei parlamentari, che verteranno su due aspetti fondamentali: la linea politica che il neo Commissario intende perseguire e il modo in cui pensa di dare attuazione alla “lettera di missione” ricevuta dalla Presidente. (Le lettere, che di fatto definiscono il mandato per il quinquennio, sono disponibili sul sito della Commissioneleggi).
Con tali lettere von der Leyen ha indicato alcuni obiettivi che ci si aspetta vengano raggiunti, delimitando al contempo le competenze dei singoli “portafogli”. Elemento in qualche modo unificante delle varie lettere è il richiamo al Rapporto Draghi sulla competitività (il testo completo in italiano è su EUNewsleggi).
Come ha scritto il Sole24Ore, “le lettere contengono i dettagli che, una volta fatti combaciare come tasselli di un puzzle, dovrebbero sostanziare le azioni concrete per la realizzazione di quel programma”.
In realtà, secondo lo stesso articolo, “la nuova Commissione [corre] – volutamente o meno – alti rischi di sfociare in un ‘Draghi à la carte’ incapace di cambiare il modello produttivo della Ue”.
L’idea di un esecutivo pronto a scegliere solo le parti politicamente meno impegnative del Rapporto predisposto da Mario Draghi era già stata avanzata da Marco Buti, ex Direttore Generale per gli Affari Economici e Finanziari dell’UE, sempre sul Sole24Ore (leggi) e, più dettagliatamente, su Aspenia online (leggi).
 
Mancano poco più di due mesi alla fine del semestre di presidenza ungherese del Consiglio dell’UE, ma, a causa della costituzione del nuovo Parlamento europeo prima e della pausa estiva poi, Victor Orbán ha avuto occasione di presentare le priorità del proprio programma solo il 9 ottobre.
Già nell’annuncio formale dell’intervento del Primo ministro ungherese nell’emiciclo di Strasburgo erano contenute esplicite critiche al comportamento antieuropeo dell’amministrazione di Budapest (leggi sul sito del PE) e solo pochi giorni prima di tale importante appuntamento istituzionale “la Commissione europea ha annunciato ricorso davanti alla Corte europea di Giustizia contro una legge ungherese tutta dedicata alla difesa della sovranità nazionale” (come scritto dal Sole24Oreleggi).
Va detto che Orbán non ha di certo fatto nulla per ammorbidire il proprio approccio conflittuale, tra iniziative diplomatiche senza mandato, ferma opposizione agli aiuti militari all’Ucraina e sostegno incondizionato a Donald Trump (ne ha scritto il Washington Postleggi). Coerentemente, anche il suo discorso programmatico dinanzi ai parlamentari europei è stato caratterizzato da uno spirito di contrapposizione frontale con le Istituzioni, come ha illustrato Avvenireleggi.
Nonostante tale panorama, c’è chi, forse ispirandosi ad un qualche “ottimismo della volontà”, vede nell’insistenza di Orbán nel sostenere posizioni estreme su temi fondanti dell’UE un “paradosso, [che] può essere positivo. Orbán potrebbe riuscire nell’opposto del suo intento: aiutare l’Europa a progredire, anziché demolirla”, come ha scritto Linkiesta (leggi). Resta il fatto che l’unico vero oppositore del premier ungherese in patria è Péter Magyar che a Strasburgo siede sui banchi del PPE (ne traccia un profilo Politicoleggi).
Come in Polonia l’estrema destra dei Kaczyński e dei Morawiecki è stata sconfitta dalla destra moderata di Tusk, così in Ungheria Orbán potrebbe essere sconfitto da un conservatore come Magyar: centrosinistra e sinistra sembrano assenti dalla scena politica.
 
A parte il Kosovo, non ancora riconosciuto da cinque Stati membri (come ricorda l’ANSAleggi), è la Bosnia Erzegovina il paese dei Balcani occidentali più in ritardo nel processo di avvicinamento all’Unione europea.
Sicuramente il paese paga le conseguenze della frammentazione etnica sulla cui base sono state strutturate le sue istituzioni negli Accordi di Dayton (1995) che hanno messo fine alla guerra civile (illustra utilmente la portata di quegli Accordi InsideOverleggi).
Ma nonostante gli sforzi della comunità internazionale e in particolare la “flessibilità” di cui hanno dato prova la Commissione e il Consiglio nel valutare i progressi del paese (“nel 2022, la geopolitica ha sostituito la condizionalità, con il Consiglio che ha approvato la raccomandazione della Commissione di concedere lo status di candidato” ha scritto la Foundation for European Progressive Studies – leggi) le dinamiche politico-istituzionali e il percorso riformatore sono balbettanti.
Le recenti elezioni comunali (6 ottobre) “non hanno mostrato grandi cambiamenti. I partiti etno-nazionalisti hanno confermato la loro forza” (come ha scritto East Journalleggi).
Ciò comporta il persistere di uno statu quo non certo entusiasmante, ma funzionale al mantenimento del potere da parte delle forze tradizionali a base etnica. In un’analisi dedicata soprattutto agli aspetti disfunzionali della struttura istituzionale della Bosnia e alla rigidità degli accordi di Dayton, un interessante articolo pubblicato sul sito del think-tank americano Just Security, fa notare come “preservare e massimizzare il potere in un sistema strutturalmente oligarchico è una priorità […] per i leader politici intransigenti della Bosnia” (leggi).