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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 31/03

Care amiche e cari amici, nell’augurarvi una buona Pasqua vi diamo fin d'ora appuntamento all’11 aprile per una nuova conferenza al Circolo della Stampa, nella quale parleremo delle prospettive per la NATO, alla luce del mutato e ancora incerto scenario internazionale, con il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa e vicepresidente dell'Istituto Affari Internazionali. A breve riceverete il vostro invito.
La rassegna stampa di Dialoghi europei, che nella prima segnalazione odierna richiama proprio il tema della NATO, ma con riferimento ad un quarto di secolo fa, invece fa una breve pausa post-pasquale. Sarà di ritorno domenica 14 aprile. Buona lettura!
 

In questa fase caratterizzata da rapporti internazionali incerti e mutevoli sui quali aleggia il pericolo concreto di una funesta deflagrazione, analisti e ricercatori si sforzano di interpretare il disordine per capire a quale nuovo ordine esso possa preludere. L’ipotesi di un mondo unipolare vagheggiata dopo il 1989 è svanita in fretta (anche se ancora nel 1999 il Ministro degli esteri di allora Lamberto Dini dichiarava in Parlamento: “La Russia nella NATO, eventualmente come obiettivo di lungo periodo: credo che al riguardo tutto quello che è stato fatto per avvicinare la Russia alla NATO […], vada nella buona direzione” – riportato in un documento della Farnesina, a pag. 225: leggi). Dopo di che, con l’11 settembre 2001, ogni certezza è progressivamente svanita. Prendendo lo spunto dalla situazione creatasi con il conflitto tra Israele ed Hamas, un interessantissimo, breve saggio apparso sul sito dell’Istituto Affari Internazionali (leggi) cerca di individuare ipotesi concrete di come potrebbero prender forma aggregazioni di paesi che pongano le basi di una nuova multipolarità. Uno dei meriti dello studio è quello di inserire nel contesto le conseguenze della decolonizzazione che, non va dimenticato, è fenomeno iniziato solo 70 anni fa. A tale riguardo, aveva individuato il problema un articolo di Geopolitica.info (leggi) secondo il quale “il cambiamento nel bilanciamento dei poteri a livello mondiale […]nel Medio Oriente trova un suo teatro fondamentale: […] molti politici occidentali continuano a considerarlo in una vecchia dinamica post-coloniale”.

 

L’unione dei mercati dei capitali non è argomento dei più accattivanti per la grande maggioranza dei cittadini europei, interessati semmai (o almeno incuriositi) dal dibattito sulla creazione di una difesa comune. Eppure, come ha illustrato il Commissario per l’economia Paolo Gentiloni (ripreso dal Sole24Oreleggi), le due cose sono in qualche modo collegate. “Se vogliamo rafforzare la difesa europea, dobbiamo finanziarla insieme”, ha detto Gentiloni, ricordando poi come “le imprese europee dipendono dai prestiti bancari per circa il 70% dei loro finanziamenti e dai mercati dei capitali per il restante 30%. Negli Stati Uniti […] è più o meno il contrario”. Mercati dei capitali su base nazionale e di piccole dimensioni sono un ostacolo al cambiamento. Questa è l’opinione anche del Presidente dell’Eurogruppo Pascal Donohoe, secondo il quale “l’unione del mercato dei capitali [costituisce] la leva per catalizzare risparmio privato e degli investitori nel finanziamento delle priorità UE” (come riferisce Borsa italianaleggi). Ma al vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’Eurozona del 22 marzo, ancora una volta le decisioni sono state rinviate ad una prossima riunione, come riportato dal sito del Consiglioleggi.

 

Anche se la constatazione è amara, si deve riconoscere che le guerre hanno spesso agito da stimolo per la ricerca scientifica e che molte invenzioni e scoperte effettuate in periodo bellico hanno poi migliorato la vita delle generazioni successive. (A titolo aneddotico, si veda l’articolo del sito Almanacco della scienza del CNR.) Analogo risultato non si registra sistematicamente con riguardo alle scienze politiche ed economiche, come gli esiti della seconda guerra mondiale hanno dimostrato: da un lato hanno trionfato democrazia e libero mercato, dall’altro totalitarismo e pianificazione statale. La decisione dell’Unione europea di accogliere la domanda di adesione dell’Ucraina e di avviare in pratica immediatamente i relativi negoziati (sul sito del Consiglio tutta la cronistoria del processo: leggi) traduce quindi la volontà di imprimere da subito ai rapporti con Kiev una netto orientamento democratico e liberale. La realtà bellica e l’evolversi della situazione sul terreno, nonché la fragilità delle istituzioni ucraine, evidenziano tuttavia quanto arduo si presenti fin d’ora un tale percorso. Descrive in modo esemplare la complessità della situazione e le scelte che dovranno essere effettuate una ricerca del centro studi Bruegel: leggi.

 

Come ha riferito in quei giorni l’ANSA (leggi), a conclusione del vertice UE-Balcani occidentali (WB6) dello scorso dicembre, i 27 Stati membri avevano chiesto, nella cosiddetta “Dichiarazione di Bruxelles”, “l’accelerazione del processo di adesione”. (Il testo della Dichiarazione è disponibile sul sito del Consiglioleggi.) La formulazione della frase non chiariva a chi fosse rivolta l’esortazione, anche se è lecito immaginare che si trattasse della Commissione e del Parlamento europeo. Giocoforza è tuttavia constatare che a frenare anziché accelerare il processo di adesione sono proprio gli Stati membri. Anche quando si arriva a risultati positivi come il recente via libera all’inizio dei negoziati con la Bosnia-Erzegovina, si deve constatare che il risultato ha richiesto il superamento di “forti perplessità” di varie capitali (come racconta un articolo di SkyTG24leggi). Eppure, per quanto incerto e claudicante, il percorso riformista che l’UE esige venga attuato nella prospettiva di un’adesione produce risultati apprezzabili. L’ultimo rapporto di Feedom House sullo stato della democrazia nel mondo evidenzia segnali positivi nei WB6, come riferisce East Journalleggi. Fanno eccezione proprio la Bosnia-Erzegovina, gravata dai problemi interetnici e finora esclusa dai negoziati d’adesione, e la Serbia. Quest’ultima, perno ineludibile della regione, sta scivolando sempre più verso un regime autocratico e un discorso pubblico ricco di ambiguità anti-europee, come ha ben illustrato nel gennaio scorso un articolo del Guardianleggi.

 

Risale al 2003 la direttiva che ha istituito “un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra”, noto con l’acronimo inglese ETS – Emissions Trading Scheme. (Il testo della direttiva è disponibile su EURLexleggi.) Ridotto ai principi essenziali, il sistema è relativamente semplice, ma nella pratica le criticità non mancano. Ogni anno, ciascun operatore economico soggetto all’ETS riceve un numero di quote di emissioni rapportato all’attività svolta. Al 30 aprile dell’anno successivo deve restituirne un numero pari alle emissioni effettivamente prodotte. Se le emissioni sono state inferiori al tetto assegnato, l’operatore potrà vendere le quote in eccesso, nel caso contrario dovrà comprarne da altri operatori più virtuosi. (Una spiegazione particolareggiata del funzionamento del sistema è fornita dal sito ambstudioleggi.) I detrattori del sistema sostengono che le quote assegnate gratuitamente a ciascuna azienda rappresentino dei “diritti di inquinare” (come riporta un articolo del Corriere del Ticino che riferisce in merito ad una conferenza sul tema del “mercato delle quote” tenutasi recentemente in Svizzera: leggi). In verità la politica e l’economia si stanno interrogando sull’ETS, ma per ragioni opposte, vale a dire la sua sostenibilità nell’attuale contesto del mercato energetico, come riferisce Euractivleggi.