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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 26/05

Se si dovessero contare le volte in cui rappresentanti di primo piano delle Istituzioni europee e degli Stati membri hanno sottolineato l’importanza e l’urgenza dell’adesione all’UE dei paesi dei Balcani occidentali, il numero ottenuto avrebbe svariati zeri. Di “accelerazione del processo di integrazione” si è parlato ancora a Cattaro pochi giorni fa (come riferito dall’ANSAleggi), dove il Commissario all’allargamento Várhelyi ha dichiarato che “per il 2027 […] i Balcani saranno pronti, o potrebbero essere pronti o potrebbero fare in modo di essere pronti ad entrate nell’Unione europea” (le dichiarazioni sono sul sito della Commissioneleggi). Purtroppo la retorica e lo stile circonvoluto non aiutano ad imprimere al processo di allargamento il cambio di passo che solo potrebbe scuotere l’apatia con cui ormai molti nella regione guardano alla prospettiva di adesione. (Un recente sondaggio è sul sito dell’International Republican Instituteleggi.) È in siffatto contesto che spazi sempre più ampi si sono aperti nei paesi in questione per altri attori internazionali. Un breve saggio appena pubblicato dal CESPI sulle “influenze esterne nei Balcani occidentali” illustra l’azione di Russia, Cina, Turchia e Stati del Golfo nella regione, suggerendo che “regimi autocratici stranieri stanno perseguendo tre principali obiettivi: accedere ai mercati europei […]; trovare manodopera a basso costo; e generare dipendenza dagli investimenti”.

 

Molti, all’interno di Israele e tra i suoi amici all’estero, criticano apertamente il Governo Netanyahu per l’incapacità di formulare una visione strategica del futuro di Gaza e dei territori palestinesi. Ma una mancanza di strategia è sembrata a lungo mancare anche alla dirigenza russa quando l’invasione-lampo dell’Ucraina si è rivelata una tragica chimera. Per non parlare poi della “fuga” americana dall’Afghanistan, che ha semplicemente aperto le porte al caos. L’assenza o la carenza di piani strategici al momento dell’avvio di un’azione bellica pare essere una caratteristica di tanti dei conflitti contemporanei. L’esempio più eclatante è stato forse quello dell’intervento occidentale in Libia del 2011, con la “rimozione” di Gheddafi (ricostruisce le fasi dell’intera crisi l’ISPIleggi). Oltre due decenni dopo la Libia è ancora divisa e insicura, nonché terra di smistamento e transito di grandi flussi migratori. Nessuna organizzazione o alleanza internazionale sembra in grado di proporre soluzioni di lungo periodo, e così i singoli paesi privilegiano iniziative individuali, a supporto dei propri interessi tattici. Si inquadrano in questa prospettiva i viaggi a Bengasi dalla premier italiana Giorgia Meloni (abbinato ad una visita a Tripoli, come riportato da La Discussioneleggi), e quello, il giorno precedente, del Ministro degli interni di Malta Byron Camilleri (ne ha scritto il Times of Maltaleggi).  L’editoriale del quotidiano maltese matte in rilievo come “In una settimana Haftar ha avuto due incontri con governi dell’UE. Questi ultimi si stanno muovendo verso un riconoscimento di fatto del potere politico di Haftar, che rafforzerà la sua posizione nella politica libica”.

 

Chi è presente massicciamente sul territorio libico ma non pare proprio interessata a perseguire soluzioni di lungo periodo è la Russia. Un articolo dell’Agenzia Nova (leggi) descrive come Mosca stia costantemente incrementando una diffusa presenza di propri militari (regolari e non), soprattutto in Cirenaica, ma in genere nell’insieme del paese per poter monitorare anche al di là dei confini. Anche Formiche.net ha dedicato un’interessante analisi alla situazione della Libia, che inevitabilmente rimarca il ruolo di primissimo piano della Russia (leggi): “la Russia ha dimostrato di saper capitalizzare le opportunità emergenti per promuovere i propri interessi in Libia. […] espandendo la propria influenza in Libia, Mosca sfida direttamente le potenze occidentali e la Nato sul loro fianco meridionale”. A tutto questo si aggiunge la notizia delle dimissioni dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, Abdoulaye Bathily, trascurata dai grandi organi d’informazione, ma che di fatto ha acuito il “vuoto diplomatico” segnalato dal medesimo articolo. L’analisi di Abdoulaye Bathily, illustrata in un’intervista ad UN News (leggi), suggerisce tra l’altro l’esistenza di interessanti influenze reciproche tra la crisi libica e la guerra in Ucraina. Larghi stralci dell’intervista sono ripresi in italiano dal sito Green Report in un articolo (di una severità forse preconcetta: leggi) dedicato alla politica africana del Governo Meloni.

 

La Macedonia del Nord, con poco più di due milioni di abitanti (l’evoluzione del dato corrispondente è sul sito Worldometersleggi), ha rappresentato negli ultimi anni un esempio virtuoso nei Balcani occidentali, almeno per quanto riguarda la determinazione nel perseguire l’obiettivo dell’adesione all’UE. (Il percorso compiuto finora è descritto sul sito della Commissioneleggi.) Proprio tale determinazione ha fatto accettare nel 2018 l’aggiunta di una specifica geografica (“del Nord”) alla denominazione ufficiale del paese per soddisfare le esigenze della Grecia (leggi su Il geopolitico). Più recentemente, anche alcune richieste della Bulgaria circa – tra l’altro – la presenza di una minoranza bulgara e la necessità di tutelarla costituzionalmente sono state accolte (ne ha riferito Euractivleggi). La larga vittoria alle recenti elezioni presidenziali e parlamentari del Partito Democratico (destra nazionalista – ne ha scritto Il Postleggi), ha rimesso in questione gli accordi raggiunti con Atene e Sofia e, di fatto, il processo di adesione all’UE. La neo-eletta Presidente Gordana Siljanovska-Davkova ha da subito causato una levata di scudi internazionale utilizzando, durante il discorso inaugurale, il nome “Macedonia” ed omettendo l’indicazione “del Nord”. Cosa ciò comporti è illustrato da un articolo della BBC (leggi) ed anche, con una prospettiva internazionale più ampia, da Internazionaleleggi.

 

Il blocco prolungato imposto dai repubblicani al Congresso americano allo stanziamento di fondi per gli aiuti all’Ucraina (rimosso soltanto poche settimane fa, come riportato da RaiNewsleggi) ha gettato un’ombra sulla capacità di reazione rapida degli Stati Uniti su scenari di guerra che non la coinvolgono direttamente. L’incapacità di indurre Benjamin Netanyahu ad evitare stragi di civili nel conflitto di Gaza (alcune riflessioni sono state proposte da Euronewsleggi) conferma i limiti di una potenza globale che non riesce più a dettare la linea nemmeno agli alleati più stretti. In un tale contesto è naturale che molti paesi cerchino di acquisire uno spazio quale “media potenza”, o almeno “potenza regionale” (per chi volesse approfondire i concetti, un esteso saggio è stato pubblicato sul sito dell’Università di Cambridge: leggi). Un caso di scuola è quello della Turchia di Erdoğan, già da anni molto attiva sul piano internazionale ed ora alla ricerca di risultati tangibili della propria azione (un articolo di Geopolitica considera la Turchia il vincitore della guerra in Ucraina: leggi). Ma, per restare tra gli attori in cerca di visibilità sugli scenari di guerra a noi più vicini, tra i pretendenti al ruolo di “media potenza” figurano evidentemente l’Iran, l’Egitto e, in modo sempre più prominente, l’Arabia Saudita. Alla lunga e progressiva crescita dell’influenza e del protagonismo saudita ha dedicato un’ampia riflessione l’European Council on Foreign Relations (leggi)