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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 26/01/25

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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali
a cura di Paolo Gozzi
 
La “grave polmonite” e il ricovero in ospedale di Ursula von del Leyen all’inizio dell’anno (riferiti dall’ANSAleggi) hanno ricevuto in genere scarsa attenzione dai mezzi d’informazione, salvo suscitare alcuni commenti e considerazioni in merito a come la più grande riservatezza circondi sovente lo stato di salute dei leader politici: si veda ad esempio quanto scritto da LiberoQuotidiano (leggi) e da Politico.eu (leggi). Ha fatto un po’ più di scalpore il fatto che i Presidenti della Commissione e del Consiglio europeo non siano stati invitati alla cerimonia di insediamento di Donald Trump, ma tutto sommato le reazioni sono state quasi di sollievo: ne ha riferito Europa Today (leggi). D’altra parte, sembra che tutta l’Unione europea, le sue Istituzioni e i suoi dirigenti si siano autoimposti ormai da tempo una regola del “basso profilo”, timorosi di assumere posizioni chiare nei confronti degli altri principali attori della politica internazionale. Ne è esempio l’atteggiamento adottato proprio nei confronti di Trump: secondo un articolo pubblicato sul sito dello IARI, che sottolinea il “silenzio dell’Europa”, si afferma che von der Leyen “ha diramato l’ordine di stemperare e abbassare i toni […], non ingaggiare scontri […] per non pregiudicare relazioni che già si preannunciano problematiche con la prossima amministrazione” (leggi). Sarebbe riduttivo considerare questo approccio semplicemente prudente o tattico. Esso è il risultato di un’evidente difficoltà a definire (e perseguire) un indirizzo strategico unitario in un momento storico in cui le destre estreme, tradizionalmente euroscettiche se non antieuropeiste, sono al governo o in posizione di forza in diversi Stati membri. Secondo quanto scrive un interessante articolo di Pandora Rivista (leggi) “le forze nativiste vogliono riconfigurare […] l’assetto europeo in favore di un’Europa da loro definita «dei popoli e degli Stati nazione», di fatto esautorando l’Unione fino a renderla un’istituzione superflua”.
 
L’“esautorazione” dell’Unione, cui fa riferimento la segnalazione qui sopra, si colloca all’interno di un fenomeno più ampio che, in questa fase epocale, coinvolge gran parte delle Organizzazioni internazionali. Della crisi diffusa di queste ultime scrive una lunga ricerca accademica pubblicata sul sito Springer Nature (leggi) che traccia (già nell’introduzione) un interessante parallelo tra “le sfide poste dagli Stati membri alle organizzazioni internazionali e, più in generale, il travaglio dell’ordine internazionale liberale”. La ricerca, citando vari autori, si spinge a sostenere che “i problemi sono sorti perché un ordine liberale presuppone che gli Stati deleghino alle istituzioni internazionali una quota significativa del potere decisionale”; tuttavia “la promozione della democrazia e l’«iper-globalizzazione» perseguita dalle istituzioni internazionali hanno minato la sovranità, portando in ultima analisi alla Brexit e all’elezione di Trump”. Una lettura, questa, che corrobora quanto affermato da Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, in una densa intervista sulla Review of Democracy (leggi): “i bei giorni andati dell’ordine internazionale liberale […] non ci sono più”. Declinando questa affermazione alla luce della crescita delle destre illiberali in Europa, Tocci sostiene che “a differenza del 2016, quando i partiti di estrema destra, nazionalisti e populisti avevano un programma incentrato sull’uscita dall’UE […] ora puntano a cambiare il progetto europeo dall’interno” e ricorda lo slogan elettorale di Giorgia Meloni «l’Italia cambia l’Europa» chiosando “cambiare l’UE in questo senso significa […] corrodere ed erodere il progetto europeo dall’interno”. In ogni caso, campione della “democrazia illiberale” è senz’altro Viktor Orbán, che ha dichiarato già nel 2014 la volontà di “costruire un nuovo stato illiberale su fondamenta nazionali” (riportato da EUNewsleggi). Il lungo percorso che ha portato a questa radicalizzazione nella politica ungherese è illustrato in un saggio pubblicato da Nomos dove si indica anche chiaramente quali sono “le condizioni perché si realizzi una svolta illiberale […]: 1) il partito dominante deve vincere almeno due elezioni consecutive; 2) la rivendicazione della sovranità viene utilizzata per polarizzare la società; 3) il rafforzamento dell’esecutivo impatta sulla separazione dei poteri, comportando l’indebolimento di importanti garanzie istituzionali” (leggi, in particolare il capitolo 3).
 
 
L’iniziativa della “nuova via della seta” (Belt and Road Initiative – BRI), lanciata dal Presidente cinese Xi Jinping tra settembre ed ottobre 2013, ha generato un flusso inarrestabile di analisi e commenti in merito alla sua portata politica, commerciale e geostrategica (si veda ad esempio un articolo del Council on Foreign Relationsleggi). Nel suo aspetto più prosaicamente mercantile, la BRI si configura come una rete logistica per la movimentazione di merci su un asse ideale che va dall’estremo oriente all’Europa occidentale, con diramazioni verso Asia centrale ed Africa (illustra i “corridoi economici” della BRI un articolo di Startmagleggi). Ovviamente le implicazioni politiche sono evidenti in un progetto di questo tipo, dai connotati addirittura egemonici. Ne sanno qualcosa Trieste e il suo porto, coinvolti per un breve lasso di tempo nell’iniziativa quali avamposti mediterranei della BRI (lo ha ricordato in questo inizio d’anno Sergio Bologna su Limes: l’articolo, ricco di interessanti considerazioni, è disponibile sul sito del Limes Club cittadino – leggi). Se per la “nuova via della seta” il Mediterraneo è importante, la Cina guarda anche altrove, ed in particolare all’Artico. Fin dal 2018 esiste un progetto di “via della seta polare” che potrebbe modificare profondamente i canali del commercio marittimo (illustra le prospettive un articolo del sito taiwanese The News Lensleggi). Sottolinea quanto l’attenzione globale si stia concentrando sulla rotta artica un articolo di Difesa Online dove viene altresì evidenziato come l’ipotesi di uno sviluppo di tale via marittima costituisca “una potenziale minaccia per l’Italia” e per i suoi porti (leggi).
 
Il Mes non serve all’Italia […] è un’altra follia europea”: pronunciate dal vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini nel giugno 2024, queste parole (riportate dall’ANSAleggi) danno conto della ferma opposizione del Governo italiano alla ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità. La valutazione tecnica di tale riforma (formulata da Bankitalialeggi) smentisce l’esecutivo (“il MES non è un organismo inutile […]; serve all’Italia tanto quanto a ciascun altro paese dell’area dell’euro”), ma ciò non ha impedito alla maggioranza di votare contro la ratifica (ne ha riferito il sito della Cameraleggi). Va segnalato che il testo (disponibile sul sito del Consiglioleggi) era stato concordato e sottoscritto formalmente da tutti gli Stati membri dell’Eurogruppo (come annunciato dal Presidente Paschal Donohoe nel gennaio 2021: leggi) e che la mancata ratifica da parte dell’Italia ne impedisce l’entrata in vigore in tutta Europa. Ripetutamente in passato Bruxelles ha cercato di convincere Roma a sbloccare questo stallo (lo aveva diplomaticamente fatto anche il Commissario Dombrovskis: leggi su RaiNews), ma senza successo. Ora la pressione sembra aumentare, in Europa ed anche in Italia. In occasione della prima riunione dell’anno dell’Eurogruppo (20 gennaio), il Direttore esecutivo del MES Pierre Gramegna ha dichiarato che “l’ambiente geo-economico si sta deteriorando [e] in questo contesto […] la ratifica del trattato di riforma del MES sarebbe di estrema importanza” (riportato da EUNewsleggi – l’intero intervento è disponibile sul sito del MESleggi). Quasi in contemporanea (4 gennaio), con un articolo sul Foglio dedicato all’ipotesi di emettere debito pubblico europeo, Lorenzo Bini Smaghi, già membro del comitato esecutivo della BCE, ha sottolineato come una soluzione al contenzioso sul MES potrebbe essere utile “per garantire con il proprio capitale nuove emissioni dedicate di titoli europei” (leggi).
 
 
In settembre dello scorso anno il premier spagnolo Sánchez ha nominato nuovo governatore della Banca di Spagna José Luis Escrivá, Ministro della Trasformazione digitale e della Funzione pubblica. La scelta, che contrariamente alla prassi non è stata condivisa con l’opposizione, ha suscitato lo sdegno del Partido Popular (come riferito dall’Agenzia Novaleggi) ma anche la perplessità di un osservatore esterno come il Financial Times (leggi). L’autonomia delle banche centrali rappresenta la “soluzione ottimale per evitare le conseguenze negative delle pressioni politiche […] sulla politica monetaria”, come rileva il Laboratorio per l’innovazione pubblica (leggi il cap. 1) e come argomenta The Conversation (leggi). Resta il fatto che per i governi la tentazione di influenzare l’orientamento e le decisioni in materia è sempre forte. Anche in Italia la Lega ha promosso un’iniziativa legislativa intesa a modificare la governance di Bankitalia (ne ha scritto il Fatto Quotidianoleggi), riprendendo una proposta già presentata nel 2019 unitamente al M5S (i dettagli su Start Magazineleggi). Ma il problema non è solo italiano e si sta generalizzando in Europa, come denunciato da Politico.euleggi.