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La rassegna stampa di Dialoghi europei fa una breve pausa natalizia e tornerà domenica 5 gennaio, in attesa di riprendere gli eventi in presenza già venerdì 10 gennaio 2025. A tutti i lettori i migliori auguri di buon Natale e di un anno nuovo ricco di avvenimenti ed emozioni.
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Non è per caso che il Trattato di Roma (1957) denominò “Comunità economica europea” la nuova organizzazione che riunì i sei paesi fondatori con l’obiettivo, in particolare, di portare alla “abolizione tra gli Stati membri dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all’entrata e all’uscita delle merci, come pure di tutte le altre misure di effetto equivalente” (articolo 3 a, leggi sul sito del Governo). In un’Europa in piena ricostruzione postbellica, il rilancio economico era infatti una priorità. Anche il primo trattato commerciale (“convenzione”) firmato dalla CEE (Yaoundé 1963 – leggi su EURLex) perseguiva precipuamente il “fine di promuovere l’aumento degli scambi tra gli Stati associati e gli Stati membri”. La situazione si è progressivamente evoluta nel tempo: abbandonata l’originaria denominazione di “Comunità economica” per la meno mercantilista “Unione europea”, anche gli accordi commerciali con i paesi terzi hanno ora una chiara valenza politica. Così è con il Trattato Mercosur, che Ursula von der Leyen ha firmato il 6 dicembre scorso a Montevideo con Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay (come riferito dall’ANSA: leggi) – firma a proposito della quale Euractiv ha detto trattarsi di “un gesto politico di enorme importanza” (leggi). L’accordo è stato salutato come un evento storico in America latina (leggi il commento dell’Agência Brasil). Molto meno entusiastiche sono state le reazioni di alcuni Stati membri, capeggiati dalla Francia e alla quale si è affiancata anche l’Italia, come osserva il Centro Studi Americani (leggi) e come ha constatato con sorpresa il Presidente Mattarella (ne ha scritto The MediTelegraph: leggi). La diatriba tra Stati membri non è trascurabile, visto che dopo la firma di Montevideo i passaggi istituzionali sono ancora numerosi. Come ricorda il sito Valori (della Fondazione finanza etica) “L’accordo deve adesso passare al vaglio del Consiglio europeo e dell’Europarlamento. E la Commissione deve ancora decidere la base giuridica per la ratifica” (leggi). Commenta in proposito un articolo del Caffè Geopolitico (leggi). (Chi volesse approfondire gli aspetti giuridico-procedurali della materia trova utili chiarimenti in una pubblicazione dell’Università Roma 3: leggi.)
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La consapevolezza del lungo passato di potenza coloniale è ancora ben presente nell’establishment britannico, indipendentemente dal partito che si trova alla guida pro tempore del paese. Poche settimane dopo il referendum sulla Brexit, il sito War on the Rocks (una piattaforma dedicata ad analisi e dibattiti su temi di strategia e difesa) affermava che “una «Gran Bretagna audace» […] rimarrebbe fortemente impegnata all'interno della NATO e in Europa, espandendo al contempo la sua influenza a est di Suez, nell’indo-pacifico, una regione che sta rapidamente diventando il centro di gravità economico del mondo” (leggi). Il nuovo governo laburista sembra voler aderire a tale immagine di “audacia”, puntando molto sul proprio coinvolgimento nell’indo-pacifico. Il 25 novembre scorso, Catherine West, sottosegretaria al Foreign, Commonwealth & Development Office, ha delineato la visione politica dell’esecutivo in un discorso durante il quale ha indicato l’approccio che sarebbe stato seguito nei confronti di ogni singolo paese della regione (leggi sul sito del Governo UK). Solo poche settimane dopo, il 15 dicembre “la Gran Bretagna è diventata la prima nazione europea ad aderire a un importante blocco commerciale indo-pacifico, in quello che è stato salutato come il più grande accordo commerciale del Paese dopo la Brexit”, come ha scritto Euractiv. Indicativi di come l’opinione pubblica e la politica britanniche siano ancora divise sull’uscita di Londra dall’UE, sono l’articolo di Independent (pro UE), che minimizza la portata del nuovo accordo di libero scambio (leggi), e quello del sito Conservative Post (pro Brexit) che ha titolato “Grazie alla Brexit: la Gran Bretagna si unisce al blocco commerciale dell’indo-pacifico in un trionfo storico per le imprese britanniche” (leggi).
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Il sito Service Shangai, controllato dal Governo di Pechino, dedica un’intera pagina alla “virtù della pazienza” (leggi), virtù generalmente riconosciuta ai cinesi, come dimostrano le innumerevoli citazioni – su siti di tutto il mondo – del detto di Confucio “La pazienza è potere: con il tempo e la pazienza, ogni foglia di gelso diventa seta” (vedi anche su Pinterest). Di pazienza ha certamente dato prova Xi Jinping, che nell’ormai lontano 2013 aveva lanciato la Belt and Road Initiative, più nota in Italia come Nuova via della seta (l’ambasciatore cinese a Roma aveva illustrato il progetto in un’intervista pubblicata sul sito dell’Ambasciata: leggi). Da allora, il progetto economico-infrastrutturale cinese si è scontrato con profondi ed imprevisti mutamenti geopolitici (dalla pandemia ai conflitti che hanno eretto una “barriera bellica” lungo i corridoi degli scambi commerciali) nonché con forse inaspettate resistenze, soprattutto da parte europea. Ma la dirigenza cinese ha saputo attendere ed adattare il progetto che ora rilancia in una versione 2.0, come indica un articolo di InsideOver nel quale si sottolinea, tra l’altro, uno “spostamento del baricentro dai Paesi sviluppati a quelli del cosiddetto Global South: leggi. Una qualificata analisi degli obiettivi espliciti e di quelli dissimulati della Nuova via della seta è proposta dallo IARI: leggi. (Per la loro complementarietà, il lettore interessato troverà molto utile la lettura di entrambi gli ultimi due testi segnalati.)
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“L’evoluzione politica in Austria pone un vero e proprio dilemma: il Paese potrebbe porsi come laboratorio di una diversa democrazia liberale o sancirne definitivamente la crisi” È questo il sottotitolo (ripreso in chiusura) di un significativo articolo pubblicato sul sito del Mulino (leggi) che prende le mosse dall’esito delle recenti elezioni in Stiria, in cui l’estrema destra della FPÖ ha ottenuto il 35% dei voti. Già partito di maggioranza relativa alle elezioni politiche di settembre (col 28,8% dei suffragi: leggi sul sito del Ministero dell’interno austriaco), la FPÖ è data in ulteriore crescita e sembra sempre più problematico confinarla nei ranghi dell’opposizione. Persino una personalità come l’ex Cancelliere socialista Franz Vranitzky ha indicato che la “dottrina” che porta il suo nome e che dal 1986 esclude collaborazioni con la FPÖ dev’essere in qualche modo riconsiderata (come riferito dal Kurier: leggi). Tra le cause di questo progressivo scivolamento dell’elettorato verso la destra estrema ci sono, oltre all’ormai imprescindibile problema migratorio, i segnali di debolezza dell’economia: li sottolinea (con la retorica propagandistica della sua posizione euroscettica) Scenari Economici: leggi. A questa visone cupa e preoccupata, condivisa da tanti osservatori europei, fanno da sorprendente contraltare le considerazioni di Stephen Walt, docente di Harvard che ha brillantemente illustrato la sua esperienza di soggiorno a Vienna in un articolo su Foreign Policy intitolato “L’Austria dovrebbe essere il modello europeo per l’America” (leggi).
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Come un fiume carsico, il problema della governabilità riemerge periodicamente in Bulgaria. La Fondazione Robert Schuman ci ricorda che “Il 27 ottobre, per la settima volta dall’aprile 2021 e la seconda volta quest’anno, i bulgari sono stati chiamati alle urne per eleggere i 240 membri dell’Assemblea Nazionale (Narodno sabranie), la camera unica del Parlamento. Come previsto, questo nuovo scrutinio non ha cambiato di molto l’equilibrio del potere” (leggi). A rendere complessa la ricerca di una maggioranza governativa c’è la frammentazione del quadro politico caratterizzato da una molteplicità di partiti dall’ideologia incerta e modellati sovente sulla personalità del loro leader. Lo dimostra anche la presente fase di avvio dei negoziati ad opera dell’ex Primo ministro Boyko Borissov, di cui ha scritto The Sofia Globe: leggi. I principali media europei sembrano seguire distrattamente le vicende legate all’instabilità politica bulgara anche se ci sarebbero valide ragioni per prestarvi attenzione. La Bulgaria è un importante produttore e fornitore di armi per l’Ucraina (in questo inizio di dicembre ha inviato a Kiev il settimo pacchetto di aiuti, come sottolinea The Kyiv Independent: leggi). D’altro canto, almeno due formazioni politiche di primo piano (il Partito Socialista Bulgaro e il partito di destra Vazrazhdane) sono apertamente filorusse e sono in contatto diretto con Mosca, come ha rivelato il sito Eurasia Review: leggi. Appare quindi giustificata l’affermazione di un articolo di Euractiv secondo il quale la Bulgaria rappresenta attualmente “un anello debole per l’UE e la NATO” (leggi).
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