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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 22/09/24

Riprende, venerdì 27 settembre, l'attività in presenza di Dialoghi Europei con la prima conferenza del ciclo "Le filiere del disordine mondiale". Parleremo nuovamente di Cina (ma non solo) con il prof. Scarpari. Chi non avesse ricevuto a locandina-invita la può scaricare cliccando qui.
Buona lettura della rassegna, in parte propedeutica alla conferenza!
 
L’importante conferenza annunciata qui sopra, con la quale Dialoghi Europeiriprende la propria attività pubblica dopo la pausa estiva, è totalmente dedicata al disegno egemonico cinese che, come sottolinea il titolo, assume il carattere di “vocazione imperiale”. Per chi, in vista della conferenza, volesse familiarizzarsi con l’argomento, proponiamo di seguito alcuni suggerimenti di lettura. Innanzi tutto può essere interessante un breve saggio (di taglio economicista) sulle radici dell’egemonismo cinese pubblicato dall’International Institute of Social Studies nell’ultimo anno pre-pandemia (2018), quando i tassi di crescita della Cina erano ancora molto alti (leggi): è anche un utile richiamo alla prudenza necessaria quando si formulano previsioni di lungo termine. Elementi da non trascurare sono la partecipazione cinese al Regional Comprehensive Economic Partnership, l’accordo di libero scambio inter-asiatico, al quale aderiscono anche Australia e Nuova Zelanda (ne parla l’ISPI: leggi), la sempre viva e tentacolare Belt and Road Initiative (quella che abbiamo denominato Via della seta, le cui innumerevoli sfaccettature traspaiono dal sito ufficiale: leggi) e naturalmente il ruolo chiave se non egemonico della Cina nei BRICS (sempre il sito dell’ISPI ha titolato un articolo dello scorso giugno “La strategia cinese per la leadership nel Sud Globale”: leggi). Infine, segnaliamo un po’ provocatoriamente una riflessione del banchiere ed esperto di questioni asiatiche Pietro Modiano che, esprimendo parole di stima per il relatore del nostro evento Maurizio Scarpari, argomenta i motivi per i quali non ne condivide l’opinione (leggi sul sito del Centro Studi sulla Cina Contemporanea).
 

Per lungo tempo l’Unione europea è stata considerata (a torto o a ragione) come il campione della soft power, la capacità di creare consenso con l’attrazione più che con la coercizione, secondo la definizione che ne diede Joseph Nye negli anni ’90 (il concetto è illustrato dall’Enciclopedia Treccanileggi). Molti analisti contestano questa visione (un testo disponibile sul sito Social Science Research Network sottolineava, nel 2021, l’inadeguatezza della politica europea nei confronti della Russia: leggi), ma è indubbio – ad esempio – che proprio l’attrattività dell’Unione abbia contribuito a rimodellare il continente dopo la caduta del muro di Berlino (sebbene autocelebrativo, un discorso dell’allora Commissario Olli Rehn del 2006 lascia intendere come la soft power europea sia stata determinante per l’allargamento del 2004: leggi su Europa.eu). Oggi, in un contesto più “liquido” dei rapporti internazionali, paesi come Russia, Cina e Turchia (ma non solo) utilizzano gli strumenti della soft power per conquistare zone di influenza laddove è venuta meno l’attrattività del modello occidentale. Se Mosca e Pechino puntano molto sulla sicurezza e, rispettivamente, sull’economia, Ankara sembra puntare su un’azione più profonda ed articolata, avviata in realtà già all’inizio di questo secolo, come illustra un interessante articolo pubblicato dalla Fondazione Oasisleggi.

 

Durante tutta la campagna elettorale che lo ha portato a trionfare alle elezioni di luglio (una “vittoria annunciata” secondo il Sole24Ore – leggi), il leader laburista Keir Starmer ha coerentemente sostenuto di non preconizzare un ritorno del Regno Unito nell’Unione europea. Ha nondimeno più volte affermato di voler attuare un “reset”, una ricalibrazione degli accordi conclusi a suo tempo tra Londra e Bruxelles per formalizzare la Brexit. Questo messaggio è stato ribadito anche dopo la nomina di Starmer a Primo ministro, in particolare in occasione dell’incontro con i leader della Comunità politica europea il 19 luglio sorso (ne ha scritto Il Foglioleggi). È stata quindi una vera e propria doccia fredda per molte cancellerie la dichiarazione di un portavoce del Governo britannico, secondo il quale non c’è “nessun piano per riportare il Regno Unito nel programma Erasmus+ dell’UE” (come riferito da Politico.euleggi ed anche da Linkiestaleggi). In verità, ultimamente negli ambienti comunitari si comincia a chiedersi se il conclamato reset non nasconda una volontà di ricalibrare solo alcuni aspetti, vale a dire quelli ritenuti prioritari da Londra (è quanto argomentato in un articolo di inewsleggi). Sarebbe una riedizione del “cherry-picking”, o scelta dei bocconi più prelibati, contro la quale si era battuto Michel Barnier nel suo ruolo di negoziatore degli accordi post-Brexit (come scrisse nel 2020 SkyNewsleggi).

 

Nell’ultima (2023) relazione annuale sullo stato di avanzamento dei preparativi per l’adesione da parte dell’Albania, la Commissione segnalava che “quanto fatto in materia di riciclaggio di denaro e di corruzione ad alto livello continua ad essere insufficiente” (il documento è disponibile su Europa.euleggi). La frase ricorre, in formulazioni più o meno sovrapponibili, anche nelle relazioni degli anni precedenti, nonché in quelle relative ad altri paesi candidati, ma il fenomeno del riciclaggio sta assumendo da qualche tempo in Albania una dimensione tale che rischia di diventare un grosso problema per l’amministrazione del Primo ministro Rama, già al centro di molte polemiche, non ultima quella relativa all’accordo con l’Italia per la costruzione sul territorio del suo paese di centri di detenzione per migranti (il contenuto dell’accordo, ben noto, è sul sito della Camera: leggi). Nello scorso mese di marzo, prendendo spunto da un articolo del Times (non disponibile in libera lettura), il sito albanese Oculus News titolava una propria inchiesta “Il lato oscuro del boom edilizio di Tirana: il denaro sporco delle (sic) droga finanzia la crescita” (leggi). Ora un’indagine ben più dettagliata di BalkanInsight ritorna sull’argomento, citando persone e lughi al centro dello scandalo (leggi).

 

Fortemente sostenuta dall’Unione sovietica durante la guerra per l’indipendenza dalla Francia, l’Algeria è rimasta sin da allora un buon alleato di Mosca, pur riuscendo ad evitare un abbraccio troppo stretto con il Cremlino. Algeri non ha ad esempio esplicitamente condannato l’aggressione russa all’Ucraina, ma allo stesso tempo “rassicura i partner europei circa l’impegno ad aumentare la produzione di gas” per compensare la rinuncia agli approvvigionamenti dalla Russia (lo afferma, riassumendo chiaramente i rapporti russo-algerini, un articolo sul sito dell’ISPIleggi). Già nel 2022, su impulso dell’allora Governo Draghi, l’Algeria era diventata il primo fornitore di gas naturale dell’Italia (ne scrisse l’ANSAleggi). Più recentemente un accordo è stato raggiunto anche con la Germania, che dal febbraio scorso per la prima volta compra gas algerino (ne ha scritto, segnalando le ricadute per l’Italia, il sito Energiaoltreleggi). Questo attivismo sul piano economico e dei rapporti internazionali (non va dimenticato che l’Algeria è il più grande paese africano, anche se per l’80% desertico) sembra tuttavia lasciare indifferente la società civile. Le elezioni presidenziali dello scorso 7 settembre hanno visto la riconferma del quasi ottantenne Abdelmadjid Tebboune col 95% di suffragi, ma il voto si è tenuto in un clima di distacco e disinteresse da parte della popolazione, con una partecipazione rimasta al di sotto del 25%. (Una panoramica ragionata del contesto in cui si sono tenute le elezioni è disponibile anch’essa sul sito dell’ISPIleggi.)