News

Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 19/01/25

Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali
a cura di Paolo Gozzi
I diritti umani [sono] sempre più, nel contesto nazionale ed europeo, il fulcro centrale dell’azione di molteplici attori.” Così scrive sul sito del CeSPI - Centro Studi di Politica Internazionale (leggi) il Direttore Daniele Frigeri, che di Politica estera e diritti umani parlerà, assieme a Michele Nicoletti (Coordinatore dell’Osservatorio diritti umani del CeSPI stesso) alla conferenza organizzata da Dialoghi europei il 22 gennaio prossimo.
Si ricorda che il CeSPI ha pubblicato presso l’editore Donzelli il volume “Politica estera e diritti umani” (acquistabile qui), a cura di Marianna Lunardini e Michele Nicoletti, nel quale figura tra gli altri un contributo del Presidente di Dialoghi europei Giorgio Perini.
Chi volesse approfondire la materia in vista della conferenza troverà interessanti ed attualissime considerazioni nel testo pubblicato dall’European Council on Foreign Relations, intitolato “Sull’orlo dell’abisso: I diritti umani nella politica estera con Trump 2.0” (leggi).
La politica perseguita dal Governo italiano in questo contesto è dettagliatamente illustrata sul sito del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionaleleggi.
Ricordando che “nelle sue relazioni esterne l’Unione europea è impegnata a sostenere la democrazia e i diritti umani”, il sito del Parlamento europeopresenta l’approccio seguito dall’UE: leggi.
Quanto i diritti umani siano ormai un aspetto pervasivo della politica internazionale (pur con contorni molto diversi) è suggerito da una recente dichiarazione del viceministro degli esteri russo Sergei Ryabkov, riportata dall’agenzia TASS, secondo il quale “i paesi membri dei BRICS trarrebbero vantaggio dall’istituzione di un’organizzazione informale per i diritti umani all’interno dell’associazione” (leggi).
 
 
Se mai in precedenza gli Stati Uniti avevano minacciato di usare la forza per impossessarsi della Groenlandia come ha recentemente fatto Donald Trump, l’interesse di Washington per il grande territorio artico non è una novità: un articolo di Wired.it (leggi) ricorda vari episodi del passato, fino a segnalare come “nel 1946[…] l’amministrazione Truman tentò […] l’acquisto offrendo alla Danimarca 100 milioni di dollari”. Lo stesso Trump, durante la sua prima presidenza, aveva proposto di comprare la Groenlandia, ricevendo dalla premier Mette Frederiksen (in carica allora come adesso) un netto rifiuto: leggicosa scrisse la Reuters. Nella storia moderna, la compravendita di territorio tra paesi è un fatto raro ma non eccezionale (basti ricordare l’acquisto da parte degli USA della Luisiana e dell’Alaska: leggi sul sito Geopop.it) e la stessa Danimarca nel 1917 vendette agli Stati Uniti le Isole Vergini: la vicenda è ricostruita sul sito del Dipartimento di Stato (leggi) e commentata nell’ottica della proposta trumpiana del 2019 da The Conversation (leggi). Ora però la situazione è palesemente diversa, con un neo-eletto Presidente degli Stati Uniti la cui spavalderia è eguagliata solo dall’imprevedibilità (leggi la breve analisi proposta dall’International Institute for Management Development). La BBC ha provato a sfidare tale imprevedibilità proponendo quattro possibili esiti per quella che ha definito “la saga groenlandese”: leggi.
 
 
Uno degli esiti della prima guerra mondiale fu la fine dell’età degli imperi moderni. Rimase in piedi l’impero britannico, ma con un destino segnato anche se di fatto si estinse solo nel 1997 con la cessione di Hong Kong alla Cina (lo ricorda brevemente il sito dell’Imperial War Museumleggi). Nel frattempo non si smise di parlare di imperialismo e antimperialismo, termini onnipresenti nel dibattito politico negli anni della guerra fredda, seppure con accezioni nuove. Come scrive il sito Studocu: “a partire dagli anni sessanta del XX secolo il termine imperialismo divenne sinonimo di un più generico espansionismo egemonico per qualificare la politica aggressiva, sia sul piano economico che militare, delle grandi potenze” (leggi tutto). In questo scorcio del XXI secolo nuove forme di imperialismo hanno preso piede, forse (e non per caso) a seguito delle politiche di disimpegno americano (ne ha parlato, con toni duri nei confronti di Barak Obama, un editoriale del Foglio del 2017: leggi). Mentre la Russia “è diventata – o è tornata a essere – una potenza aggressiva, tradizionalista, nazional-imperiale” (come ha scritto Internazionaleleggi), la Cina considera che “poiché l’imperialismo cinese garantì all’Asia una relativa pace per diversi secoli […], i leader cinesi oggi non vedono nulla di sbagliato nel loro tentativo di essere ancora una volta i supervisori della regione” (così ha scritto nel 2018 Robert Kaplan sulla Stampaleggi). Ma una pulsione imperiale (o neo-imperiale) è presente anche in Turchia, con Erdoğan che vorrebbe interpretare il ruolo di sultano. Tuttavia, con il proliferare dei sogni imperiali, c’è chi vede sorgere il pericolo di “imperialismi in conflitto” (papa Francesco, secondo Vatican Newsleggi). Un articolo appena pubblicato sul sito dello IARIpropone un’acuta analisi di come potranno svilupparsi i rapporti tra Pechino ed Ankara tra “possibile convivenza o interessi regionali pronti a scontrarsi” (leggi).
 
 
Reduce da un intervento chirurgico, quest’anno il Presidente Milorad Dodik non ha potuto presenziare alla cerimonia organizzata a Banja Luka per celebrare la “giornata della Republika Srpska” (RS) e si è limitato ad inviare un messaggio di saluto tramite il Ministro dell’interno Siniša Karan. Ne ha riferito in un dettagliato servizio sulla manifestazione Balkan Insightleggi. Fin dalla sua istituzione quasi vent’anni fa, la “giornata” è al centro dello scontro politico in Bosnia-Erzegovina e a tutt’oggi è considerata illegittima da gran parte della comunità internazionale: è stata bocciata dalla Corte Costituzionale bosniaca nel 2015, ma nondimeno imposta coram populo a seguito di un referendum tenutosi l’anno successivo nella sola entità serba. Un’analisi del Centre for Eastern Studies dello stesso 2016 ha illustrato l’iter della controversia e i suoi risvolti politici (leggi) ed è interessante notare come le considerazioni allora formulate restino sorprendentemente attuali. In assenza di Dodik, è stato il Ministro dell’interno della Serbia Aleksandar Vulin a dar voce alla retorica nazionalistica con un messaggio dai toni assai decisi. Vulin, che è anche senatore della RS (della nomina – alquanto irrituale – ha scritto l’agenzia ufficiale SRNAleggi), ha tra l’altro auspicato che la RS “cresca e si rafforzi nonostante tutte le pressioni e le persone che desiderano conculcarla o distruggerla. Possa vivere, prosperare ed essere eterna” (riferito sempre dalla SRNAleggi). Come in passato, l’Unione europea ha criticato la celebrazione della “giornata della Republika Srpska” con un comunicato sul sito della Delegazione dell’UE a Sarajevo (leggi), ma anche con dichiarazioni meno formali rivolte soprattutto alla Serbia (alle celebrazioni di quest’anno erano presenti il Primo Ministro di Belgrado Miloš Vučević e la Presidente del Parlamento Ana Brnabić, come riferito dal sito montenegrino Vijestileggi).
 
Anche se non può essere affermato in sedi ufficiali, è evidente che la Serbia rappresenta la chiave di volta per l’adesione dei Balcani occidentali all’UE: lo scriveva nel 2015 (leggi) un articolo di Eastjournal la cui lettura a dieci anni di distanza ci dà evidenza di un drammatico stallo non solo del processo di allargamento, ma dell’intero quadro geopolitico europeo. Solo poche settimane fa a riconoscere il ruolo fondamentale della Serbia è stata anche Giorgia Meloni, citata dall’EuroFocus dell’ADNKronos (leggi). Consapevole di questo rilievo strategico, il governo di Belgrado non perde occasione per evitare prese di posizione pro-europee troppo esplicite, che a suo vedere ne indebolirebbero la forza negoziale. Anzi: sembra che ogni gesto considerato di “apertura” nei confronti di Bruxelles venga prontamente bilanciato da altri percepibili come ostili. Ne è esempio l’altissimo livello della delegazione inviata alle celebrazioni (deprecate dai partner europei) della Republika Srpska, di cui si è scritto qui sopra, mentre negli stessi giorni “la Serbia ha cancellato i contratti per le armi russe che hanno rifornito il suo esercito fin dai tempi dell’Unione Sovietica”. L’articolo di Euractiv che dà conto di questa decisione precisa che “Belgrado ha acquistato 12 Rafale francesi per 2,7 miliardi di euro per sostituire l’obsoleta flotta di MiG-29 russi” (leggi). Ma chi avesse pensato che dietro questa decisione ci fosse un’avvisaglia di rottura con la Russia è stato presto smentito. Come riferito dalla TASS, rendendo conto di una telefonata tra il Presidente Vučić e il Ministro degli esteri russo, il vice-premier Vulin ha dichiarato: “quando la Serbia attraversa momenti difficili, quando i nostri interessi statali e la nostra economia sono in pericolo, o quando i serbi sono confrontati ad ingiustizie, ci rivolgiamo alla Russia per aiuto e consiglio” (leggi).