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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 17/11/24


Le genti del confine orientale – di entrambi i lati di tale confine – hanno ben chiaro il senso dell’espressione “sostituzione etnica” per esserne state involontarie protagoniste, o almeno testimoni, nel secolo scorso. Basti ricordare il campo di Gonars (leggi dal sito dell’Osservatorio Balcani Caucaso) e il ripopolamento delle città istriane dopo l’esodo (leggi un articolo del prof. Aleksej Kalc disponibile su ResearchGate). Ma il fenomeno non è stato certo una peculiarità del XX secolo: è piuttosto una costante della storia. Ne sanno qualcosa gli abitanti delle regioni dell’Ucraina occupate dall’esercito russo, di cui parla l’americano Institute for the Study of War (leggi – i toni usati sono partigiani ma riflettono nondimeno una situazione verosimile). Va poi osservato che oltre alla sostituzione etnica vera e propria i russi attuano anche una politica molto intensa di snazionalizzazione: i risultati si osservano più nettamente nella Crimea occupata ormai da dieci anni, come ha scritto Amnesty Internationalleggi. Da parte sua, pure l’Ucraina non si esime dal dar corso a politiche anti-russe, anche in materia culturale. Statue di personaggi illustri delle arti e della storia russe vengono abbattute e la toponomastica modificata nel tentativo di cancellare un passato comune. È ad Odessa che il fenomeno è particolarmente evidente, al punto da suscitare un’iniziativa di 120 intellettuali che hanno chiesto all’UNESCO di intervenire (ne ha scritto The Odessa Journalleggi (l’appello integrale è stato pubblicato da Il Foglioleggi).
 
A metà settembre, la notizia delle polemiche dimissioni di Thierry Breton, il Commissario responsabile per il mercato interno, nel pieno del dialogo tra Bruxelles e le capitali dei 27 Stati membri per la scelta del nuovo esecutivo comunitario, è stata riportata dalla stampa continentale ed è circolata in rete, ma è soprattutto negli ambienti di Parigi e Bruxelles che ha fatto scalpore. Libération si è chiesto “ma chi ha ucciso Thierry Breton?” (leggi) e Politico (ben addentro nei segreti dei palazzi europei) ha sentenziato “Questo è tutto, gente!” (leggi). Prima di diventare Commissario nel 2019, Breton aveva svolto mansioni apicali in varie importanti aziende francesi ed era anche stato Ministro dell’economia, delle finanze e dell’industria (una breve biografia è presente sul sito Challengesleggi). Il suo quinquennio al palazzo Berlaymont sarà ricordato in particolare per i suoi scontri con le “Big-Tech” americane e per aver regolamentato i mercati digitali (ne aveva parlato in un’intervista pubblicata nel 2020 dal Corriereleggi). Solo un mese prima di dare le dimissioni, Breton aveva avuto uno scontro aperto con Elon Musk a proposito di X (l’ex Twitter), di cui ha scritto Start Magazineleggi. Ora, libero da impegni e obblighi istituzionali, Thierry Breton ha concesso un’intervista a Le Grand Continent (leggi), nella quale parla anche di Musk, ma soprattutto offre un’interessante sintesi di come l’Europa sia destinata a confrontarsi con gli Stati Uniti di Donald Trump. Il tono non sembra certo quello di un ex Commissario pronto ad abbandonare la scena pubblica.
 
È dagli anni Novanta del secolo scorso che l’Unione europea (all’epoca ancora Comunità europea) incentiva la creazione e lo sviluppo di reti transeuropee. A Trieste in particolare il progetto aveva suscitato grande interesse, in quanto la città era indicata come uno degli snodi del “corridoio V”, idealmente inteso a collegare Lisbona a Kiev (una dettagliata ricerca del 1999 è scaricabile dal sito di UniTSaccedi). Nel Trattato sul Funzionamento dell’UE (Lisbona 2012) il Titolo XVI (artt. 170-172 – leggi da EURLex) è sato dedicato proprio a tali reti. Nei primi anni successivi al lancio del progetto, la temperie geopolitica internazionale aveva spinto ottimisticamente a vedere in un rapido sviluppo delle reti di comunicazione europee un elemento fondamentale per incrementare gli scambi commerciali anche con paesi extra-UE, non ultima la Russia. Uno stimolante studio del 2011 di una ricercatrice finlandese aveva tracciato un primo (prudente e scettico) bilancio proprio della cooperazione russo-europea in materia: leggi dal sito del Politecnico federale di Zurigo – ETH Zurich. Nell’arco di pochi anni tutto è cambiato. La misura di quanto tale cambiamento abbia inciso su prospettive e finalità del progetto e di come le scelte in materia di investimenti infrastrutturali di lungo periodo possano essere influenzate da circostanze contingenti è ben illustrata dall’accelerazione impressa da Estonia, Lettonia e Lituania alla realizzazione di un’autonoma rete trans-baltica, cui guarda con interesse anche la NATO, come racconta la BBCleggi.
 
Alessandro Giraudo, docente di “Geopolitica delle materie prime e gestione dei rischi” all’INSEEC di Parigi, ha rilasciato tempo fa ad Avvenire un’intervista che il quotidiano cattolico ha titolato “Nascita e morte degli imperi? Cercatele nelle materie prime” (leggi). In effetti, nell’attuale grande rimescolamento di alleanze ed influenze a livello planetario, il controllo sugli approvvigionamenti di materie prime, ed in particolare di quelle “critiche” (leggi la definizione sulla Treccani), rappresenta uno strumento imprescindibile per l’affermazione di una leadership, globale o regionale che sia, o almeno di una qualche indipendenza strategica. “Terre rare e risvolti geopolitici” è il titolo di una esauriente relazione di Pier Paolo Raimondi, dell’Istituto Affari Internazionali, presentata alla Camera un anno fa (le schede utilizzate sono disponibili sul sito istituzionale). Dal canto suo, l’UE è intervenuta con un provvedimento legislativo, adottando nella primavera di quest’anno “un quadro atto a garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime critiche”: leggi su EURLex). Ma anche i singoli Stati membri condividono la preoccupazione di fondo. Lo ha evidenziato una recente presa di posizione del Ministro Crosetto (leggi dal Sole24Ore) ed ancor più il viaggio a Belgrado del Cancelliere Scholz il 19 luglio scorso, pochi giorni dopo che la Corte Costituzionale serba ha revocato il divieto di procedere allo sfruttamento di un grande giacimento di litio. Ne ha scritto Aspenia online (leggi), sottolineando comunque anche le preoccupazioni degli ambientalisti. Delle conseguenze politiche in Serbia ha invece scritto il Serbian Monitorleggi.
 
A lungo il gruppo di Visegrád (V4 – Cechia, Polonia, Slovacchia e Ungheria) ha rappresentato una “vera e propria spina nel fianco dell’Unione [europea]” (secondo la definizione di Antonio Polito in un breve commento sul Corriere nel novembre 2018: leggi), opponendosi “ad alcune politiche dell’Unione europea, come la redistribuzione dei migranti […], o anche le politiche in materia ambientale e anti-inquinamento”, come suggerito da un articolo sul sito dell’ISPI del 2019 (leggi). L’anno successivo, The Foreign Policy Centre ha pubblicato un’analisi (leggi) che ben illustra il ruolo di questo raggruppamento informale creato nel 1991 da quattro paesi che in comune avevano, oltre a forti sentimenti nazionalisti, la passata appartenenza alla sfera d’influenza sovietica. Paradossalmente, in tempi più recenti proprio il giudizio sull’operato di Mosca è stato la pietra d’inciampo dell’unità all’interno del V4, in particolare a partire dall’occupazione della Crimea nel 2014, come indicato in un’ampia riflessione di Cairn Infoleggi). La situazione si è aggravata con l’attacco all’Ucraina del 2022, tanto che la Neue Zürcher Zeitung ha titolato “in Europa centro-orientale sono svaniti i segni di unità” (leggi). Ma se da un lato è il giudizio sulla Russia a dividere i V4, dall’altro c’entra anche – e forse inevitabilmente – il nazionalismo. È di questi giorni un articolo di Politico che riferisce in merito ad un possibile scontro tra Bratislava e Budapest a seguito di un progetto di legge slovacco che limita l’uso delle lingue minoritarie, e che sembra destinato a colpire soprattutto la minoranza ungherese (8% della popolazione totale), sempre difesa a spada tratta dalla “madrepatria”: leggi.