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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 16/03/25

Nel gran parlare di materie prime critiche e terre rare viene spesso omesso il riferimento ai problemi ambientali associati all’estrazione di tali minerali.
Per fortuna, una tale omissione non può essere imputata a Dialoghi europei, in quanto l’argomento è stato effettivamente affrontato in occasione della conferenza del 12 marzo scorso.
Il problema sussiste e non è banale.
In Serbia, prima delle attuali manifestazioni antigovernative seguite alla morte di 15 persone per un crollo alla stazione di Novi Sad (ne ha scritto Altreconomialeggi), forti movimenti di contestazione hanno scosso il paese per protestare contro “la multinazionale anglo-australiana Rio Tinto che vorrebbe aprire la più grande miniera di litio d’Europa […] un progetto che secondo gli ambientalisti devasterebbe il suolo e inquinerebbe i fiumi e le acque sotterranee” (come riportato da Avvenireleggi).
Ancora una volta però sono i paesi nordici a dimostrare grande sensibilità nei confronti dell’ecologia e della tutela ambientale. Il 10 e 11 marzo si è tenuto ad Oslo un Forum di tali paesi dedicato proprio all’estrazione delle materie prime (sul sito dedicato c’è il programma dell’evento: leggi).
Vi ha partecipato anche la Commissaria europea all’ambiente, resilienza idrica ed economia circolare competitiva Jessika Rosewall che nel suo intervento (leggi sul sito della Commissione) ha sottolineato come vocazione dell’UE sia anche quella di diventare leader nel settore dell’economia circolare, riducendo lo spreco e stimolando la domanda di materie prime secondarie (materiali ottenuti dal riciclo di prodotti a fine vita o di scarti di produzione).
 
Parole chiave: Terre rare, Materiali critici, Serbia, Paesi nordici
A capo di un paese importante (ha il secondo esercito più numeroso della NATO, il doppio di quello francese, come ricorda Truenumbersleggi) ma pur sempre di moderato rilievo economico (si colloca al 53° posto nella graduatoria mondiale del reddito pro-capite secondo il sito Data Commonsleggi), il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha saputo costruirsi negli anni una reputazione di attore politico di rango internazionale.
Ha soprattutto dato prova di spregiudicatezza, dote che sembra essere assai apprezzata in questi tempi confusi. Ha a suo tempo sfidato i vertici NATO acquistando missili russi S-400 (ne parlò nel 2019 Sole24Oreleggi), e ha più volte violentemente attaccato l’UE (addirittura “minacciandola” secondo Il Giornaleleggi).
Ma proprio nei confronti dell’Unione europea ha recentemente cambiato atteggiamento: come riferito dall’agenzia greca IBNA ha infatti “espresso la determinazione della Turchia a continuare sulla strada della piena adesione” (leggi). La portata di una tale affermazione è evidente se si rileggono le parole pronunciate da Erdoğan nel 2016 (riportate dal Jordan Timesleggi) dopo che il Parlamento europeo aveva sospeso i negoziati (leggi sul sito del PE): “la Turchia ha molte alternative all’UE”.
È evidente che un rilancio dei rapporti tra l’UE e Ankara potrebbe influenzare l’intero processo di allargamento, in particolare nei confronti dei paesi dei Balcani occidentali dove la presenza turca è già significativa.
Conforta questa interpretazione un interessante articolo (non privo di qualche considerazione azzardata) proposto dall’International Institute for Middle East and Balkan Studies (IFIMES), che afferma: “la Turchia ha ora ricevuto «piena libertà d’azione» per uno storico ritorno nei Balcani e nell’UE. Come membro del Peace Implementation Council (PIC) in Bosnia-Erzegovina e parte attiva delle forze militari internazionali in Kosovo e Bosnia-Erzegovina, la Turchia – supportata sia dagli Stati Uniti che dalla Russia – è pronta a diventare un attore chiave nella risoluzione delle crisi” (leggi).
 
Parole chiave: Erdoğan, Adesione UE, Bosnia

L’articolo dell’IFIMES appena citato si concentra in particolare sulla Bosnia-Erzegovina, dando notizia dell’esistenza di due piani statunitensi per il superamento dell’impasse creata dalla disfunzionalità della struttura statale prevista dagli accordi di Dayton (1995), che misero fine alla guerra civile bosniaca (un riepilogo degli avvenimenti è stato proposta da InsideOverleggi).
Purtroppo l’IFIMES non indica le fonti delle informazioni contenute nell’articolo, ma non deve meravigliare che la comunità internazionale cerchi di evitare l’acuirsi delle tensioni nel paese, fomentate quotidianamente dal Presidente della Republika Srpska Milorad Dodik.
La situazione si è aggravata di recente con la condanna, da parte della Corte Costituzionale di Sarajevo, dello stesso Dodik “per aver emanato leggi che sospendevano le sentenze della Corte Costituzionale e sfidato le decisioni dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite”, come ha scritto in un’ampia disamina della situazione Geopolitica.info (leggi).
Anche sull’atteggiamento della comunità internazionale sta tuttavia planando un sentimento di incertezza circa la posizione che prenderà la nuova Amministrazione americana.
Nota infatti un’analisi dell’European Council on Foreign Relations che “l’amministrazione Trump ha rifiutato per due volte di firmare una dichiarazione congiunta di routine a sostegno dell’alto rappresentante” (leggi).
 
Parole chiave: Dodik, Republika Srpska, Corte Costituzionale
I sanguinosi conflitti in corso in Medioriente – da Gaza al Libano, da Israele alla Siria e fin oltre a lambire l’Iraq e la Turchia – preludono forse ad un rimodellamento delle frontiere tracciate nella prima metà del XX secolo (come si sia giunti all’attuale statu quo è riassunto in un articolo di qualche anno fa di Al Jaaziraleggi).
La situazione sembra invece tacitamente accettata, almeno per il momento, per quanto riguarda i confini marittimi delle zone economiche esclusive (ZEE; una panoramica è offerta dall’ISPIleggi).
Ecco quindi che investitori di primo piano accettano di correre i rischi insiti in una situazione di guerra e concludono accordi commerciali che hanno in palio lo sfruttamento di enormi giacimenti di idrocarburi.
È quanto risulta ad esempio da un breve comunicato della State Oil Company of Azerbaijan, che ha annunciato la creazione di un consorzio con l’israeliana NewMed e la britannica BP in vista della firma di “un contratto con il Ministero dell’Energia israeliano per esplorare gas nel Blocco I della zona economica esclusiva di Israele nel Mar Mediterraneo […] all’intersezione delle zone economiche di Libano e Cipro” (leggi).
Parallelamente, l’italiana ENI e la francese TotalEnergies hanno concluso un importante accordo energetico per lo sfruttamento di risorse proprio nella limitrofa ZEE di Cipro (lo riferisce l’Agenzia NOVAleggi). Da notare che “il gas sarà trasportato e trattato nell’infrastruttura di Zohr [Egitto – NdC] per poi essere liquefatto nell’impianto LNG di Damietta ed esportato verso i mercati europei”.
Forse solo tra molto tempo si capirà se tutto questo attivismo per l’accaparramento di fonti energetiche fossili è causa o conseguenza di quella che Linkiesta definisce la “La procrastinazione climatica della Commissione europea” (leggi), con la “mitigazione” del Green Deal.
 
Parole chiave: Mediterraneo orientale, ZEE, Fonti energetiche fossili
Perfettamente coerente con la tradizione della destra italiana, Giorgia Meloni ha sempre utilizzato il termine nazione invece di altri meno ideologicamente connotati quali paese, stato, repubblica (che la scelta non sia banale è molto ben illustrato da un articolo sul Magazine della Treccanileggi).
È evidente tuttavia che l’esaltazione della nazione non può che generare nazionalismo. Nel 1959 Altiero Spinelli scrisse un breve saggio intitolato “Democrazia e Nazionalismo” (leggi su Il Federalista) nel quale ricordava come, alla caduta dei grandi imperi transnazionali, “la lotta per la democrazia si alleò […] con la lotta nazionale” ma “in realtà il principio nazionale, che faceva dell’individuo una semplice espressione della nazione e metteva i diritti di questa al di sopra dei diritti di quello, era avverso, nelle sue più profonde implicazioni, all’esperienza democratica”.
Tutto sommato, i problemi di convivenza tra nazionalismo (interesse nazionale) e democrazia (interesse della maggioranza degli europei) si riflettono anche nel Trattato di Lisbona che, all’articolo 5 (leggi su EURLex) postula la sussidiarietà: l’UE può intervenire solo nei settori in cui l’azione a livello europeo è più efficace di quella svolta a livello nazionale.
Spostando la lente dell’analisi verso un altro contesto geografico, è interessante osservare (come sostiene uno stimolante articolo dello IARIleggi) che anche il mondo arabo è confrontato al fenomeno nazionalista: “il panarabismo […] che mira a unire sotto un’unica nazione tutte le persone la cui madrelingua è l’arabo, non esiste più. Tuttavia, negli ultimi anni si è sviluppata nel mondo arabo una nuova forma di nazionalismo, ovvero quello che si riferisce alle diverse comunità nazionali”. “Il discorso nazionalista, costruito intorno alla figura della dinastia regnante”, ha consentito un nuovo protagonismo; in particolare ai paesi del Golfo.
Allo stesso tempo permane, nel mondo arabo, una tendenza all’aggregazione sulla base della koinè linguistica, come ben dimostra il testo pubblicato dall’European International Journal of Philological Sciences e dedicato al “Ruolo ideologico della lingua araba nella formazione dell’identità nazionale” (scaricabile qui).
 
Parole chiave: Nazione, Nazionalismo, Spinelli, Panarabismo