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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 16/02/25

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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali
a cura di Paolo Gozzi
 
Il 1° novembre 2024 una pensilina da poco realizzata nella stazione di Novi Sad, in Serbia, è crollata uccidendo 15 persone. Come segnalato pochi giorni dopo dall’Osservatorio Balcani Caucaso (leggi), la stazione “era stata recentemente ristrutturata grazie ai fondi ottenuti dalla Cina nell’ambito della […] nuova Via della Seta”. Lo stesso articolo indicava che “la rabbia dei cittadini e la sfiducia nei confronti delle istituzioni si sono manifestate già domenica 3 novembre quando alcune centinaia di manifestanti, hanno protestato prima davanti al palazzo del primo ministro e poi di fronte al Ministero delle Infrastrutture”. Cento giorni dopo il crollo la piazza è sempre più in fermento, con gli studenti (che hanno dato il via alle azioni di protesta) ormai sostenuti ed affiancati da cittadini e lavoratori. Descrive le caratteristiche del “movimento più vasto dai tempi della cacciata di Milošević” un articolo di Ugo Poli pubblicato dal CeSPI (leggi), che deplora il fatto che “il silenzio di Bruxelles in questi mesi [sia] stato assordante”. La misura di quanto invece la società serba sia coinvolta nelle proteste è indicata da alcuni sondaggi del Serbian Monitorleggi. Si sofferma sul vasto e duraturo coinvolgimento dei giovani nelle manifestazioni di protesta un articolo sul sito della Fondazione Diplo dove si può leggere tra l’altro: “mentre cercano di «resuscitare» la democrazia, stanno effettivamente passando dalle parole ai fatti. L’insurrezione di questa nuova generazione è, in tutti i sensi, dignitosa, educata, pacifica e responsabile”.
 
Gli attacchi del Presidente americano alle istituzioni internazionali e la decisione di ritirare gli Stati Uniti da alcune di esse nei primi giorni del suo nuovo mandato (OMS e Accordi di Parigi, segnala Focus – leggi – Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, dove sedeva come osservatore, riporta Il Post – leggi) , ricordano tristemente l’inizio della crisi della Società delle Nazioni, quando paesi come la Germania (1933) e l’Italia (1937) decisero di uscirne (azzarda un parallelo tra tale crisi e la situazione in cui versa oggi l’ONU un articolo di Geopolitica.infoleggi). La sfiducia nei confronti delle Nazioni Unite corrisponde purtroppo alla palpabile inefficacia dell’Organizzazione. Un sondaggio Gallup del febbraio 2024 (quindi ben precedente la rielezione di Trump) segnalava che appena il 33% degli americani riteneva che l’ONU stesse facendo un buon lavoro (leggi su Globalaffairs.org). Tuttavia, nell’articolo si affermava anche che il giudizio era influenzato dalle posizioni politiche: “i sostenitori del Partito Repubblicano tendono più spesso a voler fare le cose da soli e a pensare che si possono ottenere risultati migliori quando non si collabora con altri paesi”. Una ricerca pubblicata da International Affairs (leggi) ipotizza anche che la “disponibilità a sostenere le istituzioni internazionali potrebbe essere diminuita dalla marea montante del populismo globale”. L’ISPIè giunto a chiedersi se l’ONU sia diventata inutile, rispondendo negativamente ma non senza qualche preoccupazione (leggi) e soprattutto affermando la necessità di introdurre cambiamenti radicali. Tutta una serie di possibili interventi correttivi è già stata abbozzata dalla Foundation for Global Governance and Sustainability nel 2022 (leggi) ma i tempi di una vera riforma non sembrano proprio maturi.
 
Estonia, Lettonia e Lituania sono state le prime Repubbliche dell’agonizzante Unione sovietica a dichiararsi indipendenti fin dal 1990 (un excursus sulla storia dei tre paesi baltici è proposto dallo IARIleggi). Meno di quindici anni dopo (2004) c’è stata l’adesione all’Unione europea e l’ingresso nella NATO (di cui ha scritto eastjournalleggi). Tuttavia, un altro ventennio è stato necessario per raggiungere l’importante risultato strategico di staccare le reti elettriche dei tre paesi da quella della Russia e di allacciarle alla rete europea, scongiurando in questo modo i pericoli di rappresaglie e ricatti di Mosca. Ha parlato di “disconnessione storica” la BBCleggi. In effetti, le politiche del Cremlino hanno a lungo perseguito l’obiettivo di assicurarsi una virtuale egemonia nelle forniture energetiche all’UE, obiettivo effettivamente raggiunto grazie alla leva dei prezzi, mantenuti bassi proprio per gli acquirenti europei. Il punto di rottura si è tuttavia avuto nel 2022, quando l’attacco all’Ucraina ha determinato un sussulto della politica europea: già nel marzo di quell’anno, riuniti a Versailles “i leader dell’UE hanno adottato una dichiarazione riguardante […] il rafforzamento delle capacità di difesa, la riduzione delle dipendenze energetiche e la costruzione di una base economica più solida” (come riportato sul sito del Consiglioleggi; un’analisi della “Dichiarazione di Versailles” è sul sito della Fondation Robert Schumanleggi). Sono poi bastate poche settimane alla Commissione per definire il piano REPowerEU inteso a “ridurre rapidamente la dipendenza dai combustibili fossili russi e accelerare la transizione verde” (leggi sul sito della Commissione). Spesso trascurato, va sottolineato il nesso stabilito dal piano tra riduzione della dipendenza dalla Russia e accelerazione della transizione ecologica. Non è un caso che negli ambienti conservatori filo-putiniani si critichi l’abbandono dell’approvvigionamento sul mercato energetico russo e ci si scagli al contempo contro il Green Deal. È una delle considerazioni (“le energie rinnovabili svolgono un ruolo chiave nella riduzione della dipendenza dal gas russo e nella transizione verso un’energia più verde in Europa, coniugando interessi geopolitici e obiettivi climatici”) di un articolo de “Il Grand Continent”: leggi.
 
Nella prima metà del XX secolo l’Ucraina era vista come il “granaio d’Europa”, concupito prima da Stalin (che ne forzò la collettivizzazione provocando il dramma dell’Holodomor, ricordato su Focusleggi), quindi da Hitler (nei cui piani la “fertile regione ucraina” doveva “fornire le materie prime e i prodotti agricoli necessari alla Germania”: leggi sul sito Operation Barbarossa). Tuttavia, già il primo piano quinquennale sovietico (1928-32) “produsse uno sviluppo dell’industria pesante, dell’energia e delle risorse minerarie” (come riporta una tesi disponibile sul sito dell’Università di Padova dedicata alla “Russia e la questione ucraina” – leggi a pag. 36). All’epoca, importanti erano soprattutto le attività di estrazione del minerale di ferro e la siderurgia (lo sottolinea uno studio della Heirich Böll Stiftungleggi), concentrate nelle regioni orientali, quelle ora occupate da Mosca. Oggi tuttavia il sottosuolo di quelle stesse regioni è importante anche per la presenza di ingenti giacimenti di terre rare: ne scrisse, ad appena un mese dall’attacco russo, il sito Materia Rinnovabile (leggi). Dopo tre anni di guerra, le terre rare stanno diventando un jolly da spendere su un possibile tavolo della pace (come riporta l’ADN Kronosleggi), ma rischiano di diventare un altro elemento di attrito e contrapposizione tra Europa e Stati Uniti. È sembrato testimoniarlo la reazione del Cancelliere Scholz all’idea del presidente Trump di ottenere un “rimborso” dell’aiuto statunitense all’Ucraina mediante l’accesso alle sue materie prime strategiche (come riportato dal Kyiv Independentleggi). Nel frattempo il dialogo diretto tra Casa Bianca e Cremlino sta rendendo irrilevanti le posizioni degli altri paesi.
 
 
La sindrome dell’accerchiamento è uno dei tratti distintivi del moderno sovranismo, che sembra aver trovato a Budapest l’espressione più compiuta e il radicamento più duraturo (Viktor Orbán è al potere dal 2010). “La sovranità dell'Ungheria è sempre più sotto attacco illegale”: con queste parole iniziava la relazione illustrativa della legge approvata dal Parlamento ungherese nel 2023 “sulla tutela della sovranità nazionale” (una traduzione ufficiosa in italiano è disponibile sul sito giurcost.orgleggi). L’Unione europea, il Consiglio d’Europa ed anche gli Stati Uniti avevano invitato il governo magiaro a rinunciare all’introduzione delle nuove norme in quanto potenzialmente lesive della tutela dei dati personali (ne scrisse Euronewsleggi). Anche la Commissione di Venezia, l’istituzione più autorevole in materia di valutazione della conformità delle leggi ai principi democratici, aveva criticato il testo della proposta, chiedendo che fosse modificata (leggi sul sito del Consiglio d’Europa), ma i legislatori ungheresi non hanno seguito la raccomandazione. Dopo le richieste di chiarimenti e precisazioni di prammatica, nell’autunno scorso la Commissione europea ha deciso di deferire l’Ungheria alla Corte di Giustizia dell’UE, ritenendo che la legge in questione violi il diritto dell’Unione (leggi il comunicato su Europa.eu). Spezzando forse definitivamente la solidarietà all’interno di un Gruppo di Visegrád (Cechia, Polonia, Slovacchia e Ungheria) sempre più in crisi (ne ha scritto mesi fa Il Foglioleggi), Praga ha deciso di unirsi alla Commissione nella causa contro Budapest. Secondo il Ministero degli esteri ceco, “altri 12 Stati membri dell’UE stanno seriamente considerando o hanno già completato le procedure interne per unirsi al caso”, come riportato da Euractiv (leggi).