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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 12/01/25

Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali
a cura di Paolo Gozzi
L’importanza e la profondità dei temi trattati nel corso della conferenza di Dialoghi europei di venerdì 10 gennaio non possono lasciare indifferenti. “La caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989 e la fine dell’Unione Sovietica due anni dopo furono simbolicamente considerati come l’attestazione della superiorità del modello economico-politico occidentale, fondato su democrazia liberale e libero mercato.” È una frase estrapolata da un interessante articolo pubblicato dall’Osservatorio Globalizzazione nel 2020 (leggi) e dedicato alla visione politico-economica di Papa Wojtyła. L’autore (Andrea Muratore) sottolinea come a tale momento storico si fosse giunti con una “società occidentale fortemente mutata dall’aumento dei tassi di consumo, dall’incremento numerico delle classi medie, dal boom demografico”. Se accettiamo tale assioma, va da sé che il suo capovolgimento (contrazione dei consumi, depauperamento delle classi medie e crisi demografica) metta in dubbio la presunta superiorità del modello occidentale e in particolare quella di un sistema basato sulla democrazia liberale. Come ha scritto Paolo Pombeni su Il Mulino (leggi) “il modello occidentale […] vede indebolirsi […] il supporto di una cultura diffusa e condivisa che lo considerava il miglior sistema di gestione, razionale, della convivenza politica”. Assediata dal bellicismo ormai dilagante, la democrazia liberale è ora anche “vittima della guerra” (come argomenta uno corposo studio pubblicato su Questione Giustizia: leggi) e si ritrova in una crisi che, secondo il politologo bulgaro Ivan Krastev, si è a tal punto aggravata da rendere “quasi irriconoscibile il confine tra la democrazia stessa e l’autoritarismo” (leggi e vedi una sua intervista su Internazionale). Ma se l’autoritarismo viene rivalutato, si rischia di spianare la strada a nuovi modelli, come quello cinese. Scriveva il Democracy index 2021 in un’analisi dedicata alla Cina che “a differenza del modello di governance occidentale, basato sulla democrazia elettorale e su partiti politici rappresentativi, la Cina rifiuta la sovranità popolare a favore di una combinazione di autoritarismo politico e tecnocrazia” (leggi, in particolare da pag. 17).
 
Era il 27 novembre scorso quando hanno cominciato a circolare le prime notizie su un attacco di “ribelli siriani” a postazioni governative nelle vicinanze di Aleppo (una delle prime fonti è stata la CNN: leggi). Subito dopo sono apparse alcune ricostruzioni del conflitto iniziato nel 2011 e “congelato” negli ultimi cinque anni (leggi quella de Il Post), ma è anche stato evidenziato (dal Financial Times: leggi) come il via libera all’offensiva sia venuto da Ankara. Con il passare dei giorni e la presa del potere a Damasco da parte del gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham, il ruolo chiave di Recep Tayyip Erdoğan è apparso in tutta la sua evidenza, come sottolineato dal New York Times: leggi. Che l’azione del Presidente turco non fosse improvvisata è testimoniato da un articolo dell’ISPI del 2018, nel quale l’autrice Valeria Talbot scriveva: “da quando è scoppiato il conflitto in Siria la Turchia […] ha perseguito due obiettivi: da un lato, la caduta del regime siriano; dall’altro, il contenimento delle aspirazioni autonomiste dei curdi siriani”. Ma con Assad fuggito a Mosca e la grande incognita dell’orientamento che assumerà il governo di Al Jolani, servirà un po’ di tempo per capire veramente chi sono i vincitori e i vinti del conflitto siriano. Ha già tentato una prima valutazione il sito specializzato in tematiche relative alla geopolitica e alla sicurezza Analisi Difesa: leggi (con l’avvertenza ai lettori che alcune delle considerazioni formulate possono risultare assai opinabili).
 
Pochi giorni fa, in un passo dell’abituale discorso di fine anno, il Presidente Mattarella ha affermato che “sembra che il mondo sia sottoposto a una allarmante forza centrifuga, capace di dividere, di allontanare, di radicalizzare le contrapposizioni” (leggi sul sito del Quirinale). È una tesi ripresa in un certo senso da Marco Zatterin – recentissimo ospite della succitata conferenza di Dialoghi europei – in un articolo pubblicato dal Piccolo del 7 gennaio (disponibile sul sito ilNordEst: leggi) nel quale sottolinea come le iniziative individuali di leader europei alla ricerca di rapporti privilegiati con Donald Trump incrinino la compattezza dell’UE. Il fenomeno non è nuovo e non si è manifestato solo nei confronti del prossimo presedente americano (si pensi ai viaggi a Mosca di Orbán e Fico di cui ha scritto l’ISPI: leggi): si configura anzi come la logica conseguenza della (ir)resistibile ascesa delle forze nazionaliste ed euroscettiche. Come ha scritto l’ex Presidente della Commissione José Manuel Barroso sul sito di Chatham House (leggi), “l’ethos nazionalista è in contrasto con la natura stessa del processo di integrazione europea”. D’altra parte, deve far riflettere una considerazione contenuta in un saggio pubblicato sul sito della casa editrice accademica americana Wiley: “il processo di cambiamento socio-politico generato dall’integrazione europea è probabilmente destinato a suscitare una risposta nazionalista” (leggi). In altri termini, proprio il successo delle politiche di integrazione europea dei decenni passati potrebbe aver generato per reazione le pulsioni nazionalistiche oggi diffuse. A loro volta, tali pulsioni non concernono solo le politiche economiche, ma spingono ogni “nazione” a riconsiderare l’intero rapporto con attori terzi. Ben illustra questa situazione un articolo dell’Institut für Auslandsbeziehungen intitolato “Come l’ascesa di nuovi nazionalismi sta trasformando la politica culturale esterna” (leggi).
 
Pur con una prospettiva diversa rispetto a quelle indicate qui sopra, anche l’impianto strategico della politica estera dei singoli paesi risente del crescente nazionalismo. Quello che identifichiamo come “indo-pacifico” designa ormai un’ampia zona di confronto (e potenziale scontro) tra potenze di varia grandezza ed aspirazioni (ne dà una descrizione Geopolitica.info: leggi). Gruppi di paesi accomunati da posizioni ed interessi omogenei hanno già definito strategie unitarie per questo teatro geopolitico. I Quad (Australia, Giappone, India e Stati Uniti – per un approfondimento leggi cosa ne scrive il Wilson Center) hanno riaffermato “l’impegno per un «Indo-Pacifico libero e aperto»” (come riferito da Formiche.net: leggi), l’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) ha elaborato fin dal 2019 una propria “visione” (outlook) in merito (leggi sul sito dell’Organizzazione) ed anche l’Unione europea si è dotata di una propria strategia per la regione (leggi su Europa.eu). Ciò nonostante, singoli paesi perseguono parallelamente obiettivi autonomi: gli Stati Uniti, ad esempio, vogliono “dimostrare leadership ed impegno nei confronti dell’indo-pacifico” (come scrive il Dipartimento di Stato: leggi); per la Francia “l’area presenta […] una vitalità economica [che] si basa su una classe media mobile, connessa e sempre più urbanizzata. Questi mercati offrono grandi opportunità per le aziende francesi” (leggi sul sito del Governo francese); l’India, attore di primo piano in questo contesto, guarda al 2025 per “consolidare le proprie credenziali nell’indo-pacifico concentrandosi su tre aspetti chiave: stabilizzare il proprio vicinato, partecipare agli sforzi di integrazione economica regionale e sviluppare attivamente un vantaggio tecnologico” (leggi sul sito indiano South Asian Voices). Anche il nostro paese non vuole essere da meno e la Farnesina, con la collaborazione dei maggiori centri di ricerca italiani, ha voluto sondare “le opzioni per l’Italia” nei nuovi allineamenti geopolitici regionali (leggi).
 
Le parole tonitruanti di Donald Trump circa l’eventualità di annettere Canada, Groenlandia e Panama agli Stati Uniti, eventualmente anche con l’uso della forza, hanno trovato un’eco enorme nei mezzi di comunicazione (tradizionali e del web) del mondo intero. In Russia, anche l’agenzia TASS se ne è occupata (leggi), ma è stata la Pravda a cogliere al volo l’occasione per ritorcere contro l’Occidente le parole del Presidente-eletto scrivendo che “i discorsi sull’annessione di Canada, Panama o Groenlandia rendono vacue le parole di condanna dei globalisti nei confronti della Russia per la Crimea, il Donbass e l’«invasione» dell'Ucraina” (leggi; l’articolo – intitolato “I piani di Trump per l’annessione di Canada, Panama e parte della Danimarca saranno realizzati. Questo è vantaggioso per la Russia” – è disponibile solo in russo; le citazioni sono state ottenute con traduzione automatica). D’altra parte c’è un’interessante coincidenza terminologica nelle esternazioni di Trump e Putin: il primo parla infatti di “confine artificialmente tracciato tra Canada e USA” (leggi sul Toronto Star), mentre il secondo aveva definito l’Ucraina “uno stato artificiale” (in un’intervista di un anno fa, citata sul sito Ore12: leggi). Si delinea quindi una situazione in cui, praticamente per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel cosiddetto primo mondo viene accettato il principio che un’azione bellica possa portare alla modifica di confini internazionalmente riconosciuti. (Il caso del Kosovo non rientra in questa fattispecie in quanto il confine dell’ex provincia autonoma iugoslava è stato fondamentalmente mantenuto; nel caso di Cipro, la Repubblica di Cipro Nord è riconosciuta solo dalla Turchia.) Assume quindi connotati drammaticamente realistici quanto affermato da Putin nel 2016, e cioè che “i confini della Russia non hanno fine”, come ricordato in un articolo apparso sul sito del Carnegie Endowment for International Peace: leggi.