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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 08/12/24

Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi
Trent’anni fa, nel maggio 1994, François Mitterand e la regina Elisabetta II inaugurarono ufficialmente il tunnel sotto la Manica. All’evento il New York Times dedicò un articolo (leggi) pervaso da quella leggera ironia che ancor oggi traspare in molte analisi americane dedicate ad eventi europei. L’autore sottolineò in particolare l’isolazionismo (in senso letterale) della Gran Bretagna che “teme di poter perdere il proprio stile di vita e si aggrappa al concetto di una relazione speciale con gli Stati Uniti”. A tale “relazione speciale” hanno continuato a fare riferimento i politici britannici sin da quando l’espressione fu usata da Churchill nel 1946 (come ricorda il sito dell’Ambasciata USA a Londra: leggi). Su un tale rapporto privilegiato molto contarono i fautori della Brexit: “la Brexit sottolinea la vitale importanza della «relazione speciale»” scrisse il sito conservatore Policy Exchange poco dopo il referendum (leggi). E negli stessi giorni l’allora candidato Donald Trump dichiarò di essere “certo che si potesse concludere un buon accordo tra gli Stati Uniti e il Regno Unito dopo la Brexit” (leggi il resoconto sul sito della ITV). Oggi, il Presidente eletto sembra stia vedendo con altri occhi il rapporto che dovrà installarsi tra il Regno Unito, ormai fuori dall’UE, e gli USA. Complice la presenza di un Primo ministro laburista con il quale ha poche affinità, è probabile che Trump non intenda fare sconti nonostante la “relazione speciale”. Pochi giorni prima delle elezioni americane aveva dedicato ai futuri rapporti UK-USA una ponderata analisi Michael Cox, professore alla London School of Economicsleggi. La situazione dal punto di vista del premier britannico è esaminata sul sito (italiano) Economy (leggi).
 
Se la Comunità europea dei sei paesi fondatori è nata sulle macerie morali e materiali della seconda guerra mondiale, l’allargamento degli anni 2004-2007, che ha aperto le porte a 12 nuovi Stati membri, è stato realizzato sulle macerie ideologiche della guerra fredda. È come se una sorta di fervore di ricostruzione postbellica avesse animato i momenti topici della costruzione europea. Non a caso, ancora oggi quella dell’allargamento è da molti considerata la politica europea di maggiore successo (leggi un limpido intervento dell’ex Presidente del PE Pat Cox su Europa.eu). In un’Europa sostanzialmente in pace fino al 2022, l’urgenza di accogliere nuovi membri sembra essersi invece stemperata, e i negoziati con i paesi desiderosi di aderire (in primis quelli dei Balcani occidentali) sono stati guidati più dalle considerazioni tecniche che da quelle politiche. E va osservato che questo approccio non è seguito solo dalla Commissione (responsabile dei negoziati di adesione in virtù di un mandato del Consiglio, come spiega il sito della Camera dei Deputatileggi), bensì anche dalle amministrazioni dei paesi candidati, spesso restii ad adottare le necessarie riforme. Si pensi ad esempio alle tergiversazioni del Montenegro per quanto riguarda il fondamentale settore della giustizia. Solo nel novembre 2023, dopo più di tre anni di stallo, si è ripristinata la funzionalità della Corte costituzionale, invocata a gran voce dall’UE (tutti i dettagli sono stati pubblicati da EUNewsleggi) e solo pochi giorni fa si è analogamente sbloccato lo stallo delle attività della Corte suprema (più o meno l’equivalente della nostra Corte di cassazione), come riferito da Balkan Insightleggi. L’importanza che la materia riveste nella prospettiva dell’adesione è evidenziata regolarmente nelle relazioni tematiche della Commissione (la più recente è su Europa.euleggi), ma anche nelle sollecitazioni inviate alle autorità di Podgorica da vari enti ed organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite (leggi dal sito istituzionale) o la Commissione internazionale dei giuristi (leggi).
 
Sui principali organi d’informazione le notizie relative al vertice dei BRICS tenutosi a Kazan, in Russia, nell’ottobre scorso sono state presto eclissate da quelle relative alle guerre in Ucraina e Medioriente e all’elezione di Donald Trump. Non è successo lo stesso su varia pubblicistica specializzata che ha dedicato molto spazio all’evento: valga per tutti l’esempio dell’analisi proposta dall’Institut Montaigne – leggi. È stato tuttavia proprio il Presidente-eletto a riaccendere un faro mediatico sui BRICS, minacciando dazi del 100% se i paesi riuniti sotto tale sigla dovessero puntare alla creazione di una moneta alternativa al dollaro (come riferito dalla CNNleggi), segnalando così di considerare una tale ipotesi potenzialmente concreta. Eppure, proprio al vertice di Kazan l’idea di de-dollarizzare gli scambi sostenuta dalla Russia è stata accolta tiepidamente dagli altri partecipanti: come ha scritto lo European Policy Centre, “l’obiettivo di Putin […] di sovvertire il dominio del dollaro statunitense è ancora ben lontano dall’essere raggiunto” (leggi). Quanto serio sia nondimeno il lavoro condotto in seno ai BRICS per la definizione di un nuovo ordine finanziario mondiale traspare da alcuni passaggi di un’intervista rilasciata al sito Brasil de Fato dalla Presidente della Nuova Banca per lo Sviluppo (in pratica la banca dei BRICS) ed ex Presidente del Brasile Dilma Rousseff (leggi). Da parte sua, l’autorevole quotidiano economico-finanziario indiano Business Standard (l’India è tra i fondatori dei BRICS) ha appena proposto un’analisi intitolata “che cos’è la de-dollarizzazione e perché Trump ha messo in guardia i BRICS?”: leggi.
 
In Polonia, il cambio di maggioranza determinato dall’esito delle elezioni dell’ottobre 2023 (i risultati sono stati sintetizzati da Politico.euleggi) ha portato ad una coabitazione tutt’altro che pacifica tra il Presidente della Repubblica, l’ultraconservatore Andrzej Duda, e il nuovo Primo ministro centrista Donald Tusk. Significativamente, un articolo di EUNews del gennaio 2024 titolava “La battaglia Tusk-Duda per l’allineamento alle norme Ue sullo Stato di diritto scuote la Polonia” (leggi). Come spesso accade, la perdita del potere ha un po’ incrinato i rapporti all’interno del partito sconfitto (Diritto e Giustizia - PiS), come riferito dal sito indipendente Notes from Poland (leggi), ma questo non ha impedito allo stesso PiS di risultare il partito più votato alle elezioni amministrative dell’aprile scorso, ampiamente commentate da Balkan Insightleggi. Ora però, con l’avvicinarsi della prossima importante scadenza rappresentata dal voto presidenziale del 2025, le tensioni riaffiorano. Il Presidente uscente Duda, giunto alla fine del suo secondo (e ultimo) mandato sembra sia in totale disaccordo (lo sostiene Euractivleggi) con la designazione da parte del PiS di Karol Nawrocki quale candidato alla sua successione. Il (relativamente basso) profilo politico di Nawrocki è sintetizzato in termini sobri da Euronews (leggi). Di tutt’altro tenore è invece è la presentazione da parte del sito vicinissimo al PiS Poland Daily 24, secondo il quale Nawrocki “[condurrà] la Polonia alla sovranità e alla grandezza” (leggi).
 
Il sovranismo, che secondo la definizione della Treccani “propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale […] in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione” (leggi), suscita spesso nei suoi seguaci un moto di diffidenza e un istinto di autodifesa nei confronti dello “straniero”. C’è probabilmente un sentimento di questo tipo nelle leggi approvate o in discussione in vari paesi che classificano come “agenti stranieri” gli enti ed organizzazioni beneficiari di finanziamenti dall’estero. In tempi recenti, spetta alla Russia la primazia (2012) dell’introduzione di una tale legge (ne scrisse France24leggi), resa ancora più restrittiva negli anni successivi con l’estensione dell’“ampiezza del concetto di «attività politiche» fino a includervi praticamente ogni forma di commento sulle politiche del governo o sulle azioni delle autorità”, come segnalato da Amnesty International (leggi). Molti leader dichiaratamente sovranisti (in particolare Orbán in Ungheria, Fico in Slovacchia, Kobakhidze in Georgia), hanno seguito l’esempio di Vladimir Putin, pur sostenendo, in alcuni casi, che in realtà la loro fonte d’ispirazione fosse una legge statunitense del 1938 (il Foreign Agents Registration Act): tesi confutata sul sito EuroFocusleggi. Anche la Turchia aveva espresso l’intenzione di adottare una legge di analogo tenore, ma ha poi desistito, almeno per il momento, come riferisce il sito della fondazione Terrasantaleggi. Suscita preoccupazione in ambienti europei che ora anche in Serbia sia stata presentata al Parlamento una proposta di legge sull’obbligo per le ONG che ricevono finanziamenti dall’estero di iscriversi quali “agenti stranieri” presso il Ministero della Giustizia. Lo sottolinea il Comitato Economico e Sociale, secondo il quale “tale legislazione è incompatibile con i valori fondamentali dell'Unione Europea, che la Serbia, in quanto paese candidato all’adesione all’UE, è tenuta a rispettare” (leggi).