Annunciato pochi giorni prima di Natale, l’accordo sulla modifica del patto di stabilità e crescita ha trovato notevole spazio sui mezzi d’informazione, ma il tecnicismo della materia ha indotto spesso a spostare l’attenzione sulle contrapposte visioni dei paesi europei, piuttosto che sugli adeguamenti dei meccanismi economico-finanziari. Ha cercato di fornire un sunto comprensibile anche ai non esperti Avvenire: leggi. Resta il fatto, tuttavia, che il dibattito che ha portato all’accordo ha messo ancora una volta in evidenza i diversi approcci alla gestione delle finanze pubbliche negli Stati membri, rilanciando il confronto su concetti cardine della moderna macroeconomia. (A tale riguardo può essere utile scorrere la breve recensione di un libro di Giorgio La Malfa proposta sul sito dell’ABI: leggi.) La Germania, storico capofila dei cosiddetti “frugali”, è sembrata uscire vincente da tale confronto, ma in realtà è essa stessa in posizione delicata, come ha illustrato (con una certa veemenza) un articolo pubblicato da Il Grand Continent (leggi). Per l’Italia la nuova versione del patto dovrebbe suscitare più di qualche preoccupazione, anche se, come ricorda l’analisi, a volte dura, apparsa su Jacobin (leggi), “nelle 114 violazioni del Patto registrate dal 1999 al 2016 a nessun paese è stata comminata una multa”. Forse anche questa volta la decisione di compromesso è stata dettata da esigenze tattiche a scapito di una visione più strategica.
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