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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 01/09/24

La ripresa delle attività di Dialoghi Europei dopo la pausa estiva vedrà anche l’avvio di un ambizioso ciclo di eventi dedicati alle “filiere del disordine mondiale”. Il tema sta trovando spazio crescente nel dibattito accademico e tra studiosi di politica internazionale e la ricomposizione di un nuovo ordine mondiale comincia a rappresentare la lente attraverso la quale interpretare le vicende attuali, a partire dai conflitti in corso in Europa e nel suo vicinato. In occasione della presentazione del volume “Il nuovo ordine globale. I protagonisti del multilateralismo nelle principali aree continentali. Le principali istituzioni di riferimento in Africa, Americhe, Artico, Asia, Europa” (Armando editore, 2024), il curatore Marco Ricceri, Segretario Generale dell’Eurispes, ha sottolineato come il cambiamento in atto a livello globale “trasforma il multilateralismo in multicentrismo” di cui diventano protagoniste Istituzioni che operano secondo parametri diversi da quelli cui eravamo abituati. (Un sunto degli interventi pronunciati durante la presentazione è disponibile sul sito di Eurispesleggi.) Può risultare utile in questo contesto esaminare un altro punto di vista assai originale, formulato in un articolo pubblicato da International Affairs (leggi), nel quale l’analisi dell’attuale dinamica geopolitica non prende spunto unicamente dai rapporti di forza tra paesi, ma presta particolare attenzione all’economia. Secondo gli autori, “il nuovo ordine emergente è un prodotto dello sviluppo capitalistico – esso stesso frutto della svolta neoliberista degli anni ‘70 – che ha catalizzato nuovi livelli di cooperazione e conflitto tra e all’interno degli stati”. Non sorprenderà che i due ricercatori, seppure attivi in un’università degli antipodi (Murdoch University di Perth, Australia), concludano il testo con la celebre citazione gramsciana sul “vecchio [che] muore e il nuovo [che] non può nascere”, generando “i fenomeni morbosi più svariati” (A. Gramsci, Quaderno 3, par. 34, disponibile sul sito Wordpress.comleggi).

 

Nelle ultime settimane la stampa internazionale sta dando il giusto rilievo alle prossime elezioni che si terranno in tre Land tedeschi (tutti nell’ex-DDR): il 1° settembre andranno al voto la Turingia e la Sassonia, seguite il 22 dal Brandeburgo. Un rapido sunto della situazione e delle indicazioni che si ricavano dai sondaggi negli ultimi giorni di agosto è stato proposto da ItaliaOggileggi. Pur nella sua sinteticità, anche questo articolo ribadisce quanto traspare da tutti i commenti su questo importante turno elettorale: oltre all’ulteriore forte avanzata del partito di destra estrema Alternative für Deutschland (le cui proposte preconizzano uno Stato ed una società pervasi da valori autoritari ed iper-conservatori – molto rivela il sito ufficiale: leggi), è verosimile che anche la Bündnis Sahra Wagenknecht (BSW – Alleanza Sahra Wagenknecht, con posizioni populiste e un mix di politiche di destra e di sinistra) registri un significativo successo. Il 22 agosto il Post ha titolato: “In Germania bisognerà fare i conti con Sahra Wagenknecht”: leggi. In effetti, la crescita di popolarità e il rapido successo della BSW è un fenomeno che vale la pena di essere analizzato in quanto tale, comprese alcune similitudini con quanto avvenuto in Italia con la comparsa del Movimento 5 Stelle (il quotidiano alternativo Die Tageszeitung ha scritto nel gennaio scorso che il neonato partito “assomiglia ad altre [formazioni] populiste che si rivolgono ad un presunto centro. […] ha molte analogie con il Movimento 5 Stelle del comico Beppe Grillo”: leggi). Un’ampia ed interessante esposizione del contesto in cui nel mondo politico tedesco si è creato uno sazio per l’ascesa di un movimento populista di sinistra è contenuta in uno studio pubblicato di recente sull’autorevole The Political Quarterlyleggi.

 

In un bell’articolo sul Corriere della Sera del 4 agosto (leggi), Federico Rampini ha ben riassunto le tante debolezze che gli Stati Uniti stanno manifestando in quest’anno elettorale. Il paese campione dei valori nei quali per almeno un secolo si sono riconosciuti centinaia di milioni di abitanti del pianeta, viene sfidato proprio sul piano valoriale da nuovi protagonisti della politica mondiale. Rampini insiste sulla crisi di credibilità interna del sistema istituzionale americano, e solo alla fine suggerisce che “[è] possibile, forse è verosimile, che il peso dell’America nel mondo sia destinato a diminuire inesorabilmente”. Ma ad evidenziare l’indebolimento degli USA sullo scenario globale c’è anche un fatto nuovo e sorprendente: una forma di “insubordinazione” di alcuni dei paesi che più dipendono (per la loro stessa esistenza) dall’America. La telefonata di fine luglio del ministro della difesa russo a quello americano a proposito di una possibile “operazione” ucraina e la sorpresa di Washington per tale notizia (ne ha scritto il New York Timesleggi) ha dimostrato, a posteriori, come quello lanciato poche settimane dopo da Kiev fosse assai probabilmente un attacco deciso da Zelensky in autonomia e contro la volontà americana di un uso circoscritto delle armi fornite. Anche Netanyahu ha ripetutamente ignorato le esortazioni americane per la firma di un cessate il fuoco a Gaza (già mesi fa il Fatto Quotidiano aveva titolato “Netanyahu sfida ancora Biden” – leggi). Infine, nel suo piccolo, anche il leader kosovaro Kurti ha ripetutamente disdegnato le ingiunzioni dell’Ambasciata USA a Pristina, adottando misure provocatorie nei confronti della minoranza serba (la posizione dell’ambasciatore statunitense è riportata da Radio Free Europeleggi). Chissà se è vero che, come diceva Agata Christie, tre indizi fanno una prova…

 

Appena iniziata la presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Unione (1° luglio), Viktor Orbán aveva preso l’eclatante iniziativa di recarsi a Kiev, a Mosca e poi a Pechino, auto-attribuendosi un ruolo di mediatore che nessuno gli aveva attribuito. Anzi: l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell aveva stigmatizzato tali iniziative precisando che si trattava all’evidenza di viaggi organizzati nell’ambito di relazioni bilaterali, senza alcun mandato da parte delle Istituzioni di Bruxelles (ne scrisse l’ANSAleggi). Le parole di Borrell non hanno ovviamente indotto Orbán ad assumere una posizione meno conflittuale nei confronti dell’Unione. Agli scontri in materia di politica estera si sono ora aggiunte nuove provocazioni. Disattendendo anche le basilari norme di cortesia istituzionale, Budapest non ha nemmeno risposto ad una nota della Commissione che chiedeva lumi sulla decisione di agevolare le procedure di rilascio del visto ai cittadini russi e bielorussi (lo riporta EUNewsleggi). Rimane altresì vivissima la polemica circa la gestione dei migranti, col il Ministro Gergely Gulyás che ha dichiarato: “offriremo a tutti i migranti al confine ungherese l’opportunità di essere trasportati a Bruxelles volontariamente e gratuitamente” (ne riferisce The Brussels Timesleggi). Un’analisi di quella che viene rappresentata come una grande operazione di pubbliche relazioni da parte dell’establishment ungherese in coincidenza con la presidenza semestrale è stata pubblicata sul sito della Heinrich-Böll-Stiftung ad inizio agosto: leggi.

 

Il 25 giugno scorso l’Unione europea ha formalmente avviato i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova (come riportato da Euronewsleggi). La decisione è stata ovviamente dettata da considerazione strategiche, visto che i tempi di un effettivo accesso all’UE non sono nemmeno indicativamente valutabili. Nondimeno, l’iniziativa di Bruxelles ha lanciato un segnale politico molto forte. In Moldova, in particolare, l’apertura dei negoziati ha rafforzato gli ambienti pro-europei vicini alla Presidente Sandu. Tuttavia, per motivi opposti ma speculari, anche la retorica dei filorussi si è rinvigorita proprio per stigmatizzare l’avvicinamento all’UE (ne ha scritto Euractivleggi). In ottobre si terranno le elezioni presidenziali, abbinate ad un referendum sulla proposta di includere l’integrazione europea nella Costituzione: prende spunto dal quesito referendario un pregevole studio del Tony Blair Institute for Global Changeleggi).