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Quanti ostacoli per l'autonomia strategica europea!

Per gentile concessione del "Gruppo NEM"

Perché tanta ritrosia nell'affrontare finalmente assieme, a livello europeo, il tema della difesa, a 70 anni esatti dal fallimento del lungimirante progetto della CED (Comunità Europea di Difesa)? E questo nonostante il rischio di disimpegno americano dalla NATO (o forse proprio per questo motivo)?

Perché, più che la difesa da un punto di vista strategico-militare, contava, e conta ancora, la difesa degli interessi industriali e dei campioni nazionali del settore bellico dei singoli stati membri, o almeno di alcuni di loro, Francia in testa. Come spiegare altrimenti la richiesta, recentemente avanzata da Macron, che il fondo EPF (European Peace Facility) sia vincolato ad acquistare solo armi costruite in Europa, fornendo un palese assist all’industria bellica francese? Tra l'altro l'EPF, costituito con il contributo di tutti gli stati membri nel 2021 (un anno prima dell’invasione dell'Ucraina), ed originariamente pensato in funzione di peacekeeping e prevenzione di conflitti e solo successivamente riorientato al sostegno militare all'Ucraina, nonostante un recentissimo rifinanziamento, è dotato di poco più di 20 miliardi di euro. Ben poca cosa se pensiamo che la spesa complessiva in armamenti dei paesi europei ammontava già nel 2022 a circa 240 miliardi di euro l'anno ed è in forte crescita. È questa infatti la vera posta in gioco, se passasse il principio che, anziché acquistare separatamente gli armamenti, in larga parte dagli Stati Uniti, ma anche, per una proporzione significativa, dalla Corea del Sud, gli stati membri dell'UE debbano rifornirsi solo sul mercato “domestico”. Solo così si spiega anche l'intenzione, apparentemente sproporzionata, espressa dal cancelliere Scholtz, di avviare investimenti per 100 miliardi di euro nel settore degli armamenti.

Per lo stesso motivo ha suscitato grande interesse l'ipotesi recentemente avanzata dalla Commissione europea di finanziare investimenti in progetti militari con fondi derivanti da debito comune europeo (come nel caso del NGEU, che ha sconfitto il tabù del debito comune, per sostenere la ripresa economica dopo la pandemia, per mezzo dei PNRR ), ma allo stesso tempo freddezza – sempre da parte di Germania e Francia  -per la previsione che la loro realizzazione debba essere affidata a più stati membri congiuntamente e soprattutto per il controllo sovranazionale previsto in capo alle istituzioni europee. Finora infatti, soprattutto nel caso della Francia, il settore della difesa è stato spesso utilizzato come semplice strumento per lo sviluppo di tecnologie e l’effettuazione di investimenti, approfittando della sottrazione di gran parte dell’industria bellica alle regole di concorrenza UE che consentiva di finanziarla massicciamente, con l'obiettivo nemmeno troppo mascherato di traferirne i risultati, immediatamente o quasi, al settore civile, per sfruttare un vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi. Una “scorciatoia” che purtroppo l’Italia non ha mai imparato a praticare!

Come superare questa situazione di stallo che ci condanna alla subalternità in ambito NATO e all'assenza di qualsiasi capacità credibile di deterrenza autonoma? Non facile naturalmente, ma forse sviluppare lo strumento degli IPCEI  (Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo), già collaudato per lo sviluppo di tecnologie nel settore dell’idrogeno, delle batterie e dei microconduttori, adeguandolo al settore della difesa, lasciando in particolare alle imprese partecipanti la scelta dei partner e della suddivisione dei compiti, salvo concordare con le istituzioni europee gli obiettivi da raggiungere, ma senza controllo sovranazionale sulle operazioni, potrebbe essere una strada da esplorare.

Giorgio Perini

 

Immagine: © European Union 2014 - European Parliament/Flickr