Muore Navalny, non la speranza
Ho voluto attendere che venissero celebrati i funerali di Navalny prima di scrivere queste righe perché speravo che dessero un segnale di speranza e attenuassero lo sconcerto per quella morte, pur così preannunciata e di certo messa in conto dallo stesso Navalny come supremo sacrificio e prova di credibilità verso i suoi connazionali.
Non l'ho fatto tanto per timore, pur giustificato, che il regime putiniano riuscisse a far passare nel silenzio e nell'apparente indifferenza i suoi funerali, fornendoci un motivo in più per temere che l'inebriamento da potere assoluto potesse condurre ad un'escalation del conflitto, assediando ancora di più i confini dell’Unione europea, e nemmeno illudendomi che, al contrario, una larga partecipazione all'ultimo saluto per Navalny potesse indurre il Cremlino ad un atteggiamento più dialogante sul conflitto con l'Ucraina, invasa – non dimentichiamolo per piacere – unilateralmente ed immotivatamente dalla Russia, in modo non dissimile da quanto fece Hitler in Cecoslovacchia (Donbass = Sudeti), perché purtroppo non credo che la svolta sia dietro l'angolo. Ma ho fatto bene ad aspettare perché il segnale di speranza e di seppur esile ottimismo, è venuto dall'incredibile partecipazione del popolo russo che ha sfidato il potere, a rischio della propria libertà se non peggio, dimostrando al mondo che i russi sono tutt'altro che allineati dietro al despota di turno.
Putin evidentemente non sapeva se temere Navalny più da vivo - magari libero, fuori dalla Russia, un nemico mortale più che un oppositore, ai suoi occhi - o da morto. E ha fatto la sua scelta. Facendo di Navalny un martire e un mito destinato a crescere nel tempo e, con ogni probabilità, ad essere ricordato ed onorato dalle future generazioni di russi. In una Russia democratica, speriamo, per il suo popolo innanzitutto, per la regione di riferimento e per l'equilibrio planetario.
Giorgio Perini
Presidente di Dialoghi Europei